di Marina Gersony
L’educazione sulla Shoah è davvero il rimedio più efficace per combattere l’antisemitismo? La scrittrice Dara Horn non ne è convinta. In un lungo articolo pubblicato su The Atlantic, espone la sua tesi e apre il dibattito su un tema delicato e complesso.
L’insegnamento dell’Olocausto nelle scuole, nei musei e attraverso i media ha come obiettivo la promozione della comprensione degli eventi storici, dei valori della tolleranza e della prevenzione di futuri genocidi. Tuttavia, secondo Horn, l’approccio educativo adottato finora rischia di generare risultati opposti. La scrittrice americana non è la prima a sollevare la spinosa questione: dalla mappa dell’intolleranza elaborata qualche anno fa dall’associazione Vox – Osservatorio italiano sui Diritti e dall’Università di Milano, era già emerso l’aumento dell’antisemitismo sui social soprattutto durante la Giornata della memoria con messaggi triplicati e hate speech su Twitter. Secondo l’associazione, oltre al numero era cresciuto anche il livello di aggressività delle offese contro gli ebrei.
La domanda che oggi si pone è sempre la stessa: come si possono adottare strategie efficaci di contro-narrazione e narrazione alternativa per eliminare stereotipi e pregiudizi negativi? Perché nonostante gli sforzi per mantenere viva la Memoria, l’odio antiebraico non diminuisce? Nonostante l’istruzione sull’Olocausto sia stata intensificata in molti Stati americani e in molti altri Paesi, l’antisemitismo continua a far parte della quotidianità.
«Ho pubblicato un libro alla fine del 2021 sulle strumentalizzazioni della storia ebraica dal titolo volutamente provocatorio People Love Dead Jews. Quello che non mi sarei mai aspettata è la valanga di storie private che ho ricevuto dagli ebrei americani, online, attraverso lettere, ma soprattutto di persona». Sono ebrei che hanno raccontato di essere stati vittime di discriminazioni antisemite da parte di capi e colleghi; di amici che hanno reagito male quando hanno menzionato le celebrazioni ebraiche come il bar mitzvah o i viaggi in Israele; compagni di classe che hanno vandalizzato le loro stanze e li hanno diffamati online; insegnanti e vicini che hanno ripetuto teorie del complotto antisemite. Un elenco di umiliazioni che gli ebrei americani hanno condiviso con profonda vergogna sentendosi privati del diritto di esprimere il loro sentire. Non ne avevano il diritto «in quanto non hanno vissuto l’Olocausto».
Nonostante gli sforzi lodevoli di scuole, insegnanti, conferenzieri, educatori, organizzatori di eventi e istituzioni per contrastare il crescente antisemitismo attraverso una maggiore istruzione sull’Olocausto, la situazione non migliora. (Prima del 2016, solo sette Stati americani avevano richiesto programmi specifici sul tema nelle scuole, negli ultimi sette anni sono diventati diciotto).
Secondo l’autrice dell’articolo, non è sufficiente affrontare il fenomeno attraverso l’insegnamento della Shoah. Nel corso dell’ultimo anno, visitando diversi musei dell’Olocausto e confrontandosi con educatori di tutto il Paese, Horn è giunta alla sconcertante conclusione che l’educazione sulla Shoah non è adeguata e non è in grado di affrontare l’antisemitismo contemporaneo.
L’autrice cita il Museo di Dallas come l’unico in cui è stata spiegata l’identità degli ebrei. Tuttavia, la descrizione è stata liquidata come una “religione” familiare ai non ebrei, senza approfondire la ricchezza e la diversità dell’identità ebraica contemporanea. Inoltre, l’educazione americana sull’Olocausto sembra ignorare gli ebrei vivi, concentrando l’attenzione invece su altri genocidi o sulla sofferenza di altre minoranze.
Inizia così la lunga e documentata indagine di Dara Horn sui metodi di insegnamento adottati nei musei americani e tra i docenti. Tuttavia, la sua ricerca ha evidenziato una sfida cruciale nella presentazione dell’Olocausto come lezione per il presente, ossia come collegare l’evento storico ai tempi attuali senza rischiare di banalizzare una delle tragedie più atroci della storia. Horn ha individuato un’importante problematica nell’approccio alla materia. Infatti, la richiesta di “prendere posizione” su questioni di attualità può spingere i giovani a semplificare e minimizzare la portata e la gravità dell’Olocausto, perdendo di vista la complessità del contesto storico in cui si è verificato. La necessità di collegarlo ai tempi moderni deve essere gestita con cura e attenzione: un esempio lampante è rappresentato dai contestatori del protocollo Covid che avevano indossato delle magliette con il Magen David appuntato e i manifesti di Anna Frank in bella vista, nonostante l’evidente antisemitismo dei manifestanti. «È antisemita usare l’omicidio di massa degli ebrei come supporto», ha affermato l’autrice. Di fatto un uso distorto e vergognoso della Memoria.
In definitiva, in che modo si dovrebbe educare i bambini e i giovani sull’antisemitismo? E come si potrebbe contrastare la riduzione dell’istruzione storica e l’aumento delle teorie antisemite sui social media? L’autrice intravede una possibile soluzione ascoltando la direttrice educativa del museo di Dallas, Charlotte Decoster. Decoster ha spiegato ai docenti che gli studenti devono comprendere l’origine dell’antisemitismo e le ragioni per cui gli ebrei sono stati perseguitati nella storia. Inoltre, ha presentato una infografica che descrive le tre componenti dell’antisemitismo: l’antisemitismo razziale, l’antigiudaismo e la teoria della cospirazione antiebraica. Infine, JE Wolfson, della Commissione consultiva per l’Olocausto, il genocidio e l’antisemitismo del Texas, ha guidato gli insegnanti attraverso una dettagliata storia dell’antisemitismo, sottolineando l’importanza di introdurre gli studenti all’ebraismo attraverso il contenuto dell’identità ebraica, e non solo attraverso l’antisemitismo. Wolfson ha dichiarato che «se insegni l’antisemitismo prima di insegnare il contenuto dell’identità ebraica, stai sbagliando».
Sul tema è interessante rileggere il libro di Avraham Burg, uscito in Italia nel 2008 (Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico; Neri Pozza; traduzione Elena Loewenthal; pagg. 416; euro 19,00). Un libro scomodo, a tratti urticante, che ha fatto molto discutere ma anche riflettere. Burg parla di una Memoria dogmatica, ripetitiva e apologetica che dura ormai da decenni, ridotta a istituzionalizzazione formale e contemplazione passiva del passato. Una memoria che con il tempo e la progressiva scomparsa dei testimoni continua ad essere un elemento ossessivo. Gli stessi ebrei americani, scrive Burg, affondano sempre di più nei pantani di Auschwitz e degli altri luoghi di sterminio, usano il Genocidio a fine identitari e politici. Osserva lo scrittore: «Oggi siamo arrivati al punto che ogni giorno si può leggere qualcosa che riguarda la Shoah, un nuovo studio, un nuovo film, un nuovo libro, un’intervista eccezionale o una testimonianza rara. Anche se il trauma rimane, malgré tout, e impedisce di andare avanti».
Sentimenti antisemiti sull’educazione della Shoah
Abbiamo infine raccolto alcune ragioni per cui l’educazione sull’Olocausto genera sentimenti contrastanti e antisemiti. Questi punti di vista sono controversi e non rappresentano necessariamente la maggioranza delle opinioni su questo argomento.
- Alcune persone considerano l’educazione sull’Olocausto come una forma di propaganda che promuove gli interessi degli ebrei piuttosto che una lezione di storia oggettiva. In breve vedono gli ebrei stessi come beneficiari di un’attenzione eccessiva e di una simpatia speciale.
- Alcune persone reagiscono all’educazione sull’Olocausto identificandosi in modo eccessivo con le vittime e sviluppando un senso di risentimento verso altri gruppi che non hanno ricevuto la stessa attenzione storica. Vedono gli ebrei come privilegiati e immuni alle critiche.
- Alcune persone reagiscono all’educazione sull’Olocausto percependola come una forma di colpevolizzazione, in cui gli ebrei sono presentati come vittime innocenti e altri gruppi sono colpevolizzati per aver permesso o addirittura causato l’Olocausto. Vedono gli ebrei come trionfatori moralisti che usano l’Olocausto per giustificare l’aggressione contro altri gruppi.
(Fonte foto: 972mag)