di Elia Boccara
Questa non vuole essere una recensione, ma soltanto il tentativo di accompagnare il lettore nei complicati meandri che hanno accompagnato la mia esistenza, solo in parte descritti nel mio libro, Ricostruzione di un’anima.
Fin da quando sono nato nel 1931 mio padre aveva deciso che non ricevessi alcuna educazione religiosa, valorizzando la mia identità italiana attraverso la frequentazione di una scuola statale italiana a Tunisi che, dati i tempi, era a gestione fascista. L’italianità di mio padre a scapito della religione, gli era stata inculcata dal proprio genitore, nato nel 1873, dodici anni dopo l’Unità d’Italia, quando la nazionalità italiana fu conferita a tutti i cittadini ebrei residenti in Tunisia che avessero una qualsiasi origine negli Stati della penisola. Mi mancò così una basilare conoscenza delle mie origini ebraiche, fonte per me di un forte disagio, che durò a lungo a causa di gravi vicende personali.
Indicherò intanto quale fosse la situazione religiosa ebraica della Tunisia. Gli ebrei abitavano nel paese fin dall’epoca romana. La conquista araba li collocò in una situazione di palese inferiorità politica e sociale, pur lasciando loro la libertà religiosa. Accanto a questi ebrei indigeni, dal Seicento in poi giunsero in Tunisia alcune centinaia di ebrei europei, degli utili mercanti che assicuravano un traffico internazionale, indicati come livornesi, la cui incerta religiosità li condusse a creare nel 1710 una Comunità propria, ufficialmente ortodossa, ma i cui membri erano molto approssimativamente osservanti. Capii soltanto pochi anni fa la causa di questa diversità: ci torneremo. Mio padre, lontano dalla pratica religiosa, mantenne l’iscrizione alla propria Comunità come semplice identificazione di carattere culturale e civile. Egli era, fin dal 1936, Agente generale per la Tunisia dell’INA (Istituto Nazionale delle Assicurazione, legato al fascismo). Nel 1938 le leggi razziali italiane furono per lui una grande delusione: espulso dal Partito Fascista cui era iscritto, rimaneva provvisoriamente in carica mentre la guerra imminente mise definitivamente fine all’attività dell’INA in Tunisia. Egli decise di rimanere italiano, contrariamente agli altri parenti Boccara, che divennero francesi. Mentre in Italia gli ebrei venivano espulsi dalle scuole statali, a Tunisi le scuole italiane accettavano ancora gli scolari ebrei. Salvo pochi casi i genitori optarono però per le scuole francesi, mentre mio padre mi lasciò nella scuola italiana perché non perdessi i contatti con la nostra lingua. Non ebbi a soffrire di questa decisione per i modi particolarmente accoglienti che mi furono assicurati. Non furono mai nominate né le leggi razziali, né la mia identità ebraica. Ero esonerato dall’ora di religione, rimanendo però in classe (tra l’altro padre Longo, insegnante di religione non ci nascose en passant la sua scarsa simpatia nei confronti del fascismo. Da bambino quale ero, mi uniformai. Ammiravo il Duce, pensando che le sue leggi contro di noi fossero un errore.
Quando, nel 1945, scopersi gli orrori della Shoah aspirai a fare l’aliyah, ma dovetti rinunciare a causa della contrarietà di mio padre che confermava il suo amore per l’Italia, dove aveva deciso di mandarmi a studiare. A Tunisi intanto nel 1943, dopo la Liberazione, la Francia, aveva soppresso le scuole Italiane, costringendomi, dopo varie esitazioni di mio padre, ad emigrare nelle scuole francesi.
Nei primi anni dopo l’indipendenza della Tunisia, mio padre ebbe il suo momento di gloria, impegnandosi con grande fervore nella ricostituzione di una Camera di Commercio italo-tunisina. Allego una sua fotografia in compagnia del ministro per il commercio estero Matteo Matteotti, figlio di Giacomo Matteotti (assassinato dai fascisti), in visita a Tunisi.
Chi mi informava sui progressi del sionismo era la zia Nelly, sorella di mia madre, presidentessa della WIZO (WOMEN INTERNATIONAL ZEWISH ORGANIZATION) di Tunisi, molto attiva nel collaborare ai piani destinati a favorire l’emigrazione dei giovani ebrei di Tunisia in Israele fino al 1956, quando la Tunisia indipendente vietò ogni attività in questo senso. Intanto giungevano a Tunisi dei responsabili sionisti di alto livello, invitati a pranzo da mia zia, che mi chiamava sempre perché partecipassi agli incontri.
Il fatto particolare di quel periodo fu l’inutile tentativo di Elia Finzi (ebreo), proprietario di una tipografia e direttore del giornale Il Corriere di Tunisi, di sostituire mio padre alla Camera di Commercio facendo votare in questo senso alcuni suoi amici siciliani, ma non ebbe successo. In quello stesso periodo sul suo giornale veniva sferrato un anonimo quanto incomprensibile attacco nei miei confronti, firmato Mastro Geppetto. Il motivo era la pubblicazione di un mio articolo in cui sollecitavo il governo italiano perché riaprisse una scuola italiana a Tunisi. Mi si accusò di essere un pivellino animato di manie di grandezza, ridicolizzandomi. Il Console Generale Maccotta era scandalizzato, essendo conscio del fatto che se ero di nuovo a Tunisi ciò era dovuto il fatto che, ormai sposato a Roma, vi ero dovuto tornare per la morte di mia moglie, subito dopo aver partorito una bambina, rimasta orfana. A Tunisi mia madre mi avrebbe aiutato ad allevare la neonata. Dinanzi a me Maccotta fece una lavata di capo a Finzi, che non batté ciglio, costringendolo a pubblicare una completa ritrattazione sul suo periodico. Vari anni dopo ho saputo che Mastro Geppetto era in realtà Nullo Pasotti, addetto culturale all’Ambasciata d’Italia, che clandestinamente dettava la linea al Corriere di Tunisi, ciò che per evidenti motivi l’Ambasciata doveva ignorare. Vecchie ruggini probabilmente: Pasotti iscritto al partito socialista francese, mentre mio padre (acqua passata) aveva avuto la tessera del partito fascista. In quanto a me non ero certamente responsabile delle scelte che faceva mio padre quando ero bambino…
In effetti, tornato a Tunisi, non ero rimasto con le mani in mano. Insegnante di francese in una scuola tunisina nelle prime ore del mattino, lavoravo subito dopo come corrispondente dell’Agenzia giornalistica Italia. Intanto l’Ambasciatore d’Italia Ferretti aveva ottenuto la mia nomina a rappresentante in Tunisia dell’Istituto italiano per l’Africa, mentre la stampa locale parlava delle mie varie iniziative nel campo dei rapporti culturali e turistici tra Tunisia e Sicilia, in contatto con personalità tunisine.
Tutti gli italiani dei vecchi tempi hanno oramai lasciato la Tunisia. Erano rimasti i Finzi che tenevano duro con un notevole impegno. Dopo la morte di Elia Finzi sua figlia Silvia, rimasta sola con l’anziana mamma, pubblica ancora Il Corriere di Tunisi, ma la tipografia non esiste più.
Per tornare alla situazione mia familiare devo ora fare un passo indietro. Tutto non era stato così semplice. In senso stretto chi dominava la nostra famiglia era mio padre Giorgio. Ma Giorgio, così patriota e antagonista nei confronti della Francia, aveva una mamma accesamente francese, figlia di Raymond Valensi il quale era uno dei notabili più importanti della colonia francese, in un periodo in cui era accesa la rivalità tra Italia e Francia: l’Italia non aveva digerito nel 1881 la conquista francese del paese, sul quale aveva messo gli occhi sia per motivi geografici, sia perché gli italiani che abitavano nel paese erano molto più numerosi dei francesi. Mio bisnonno Raymond faceva parte di quella categoria di immigrati livornesi cui ho già accennato, ma egli aveva nascosto questa sua origine che nuoceva al suo desiderio di presentare sé stesso come francese à part entière. Era successo che nel 1790 Gabriel Valensi era stato assunto dal Consolato di Francia, come uomo di fiducia, detto anche drogman (dragomanno in italiano, sostantivo di origine turca), considerato per questo motivo come protetto francese, identità politica che gli conferiva varie prerogative. Il nipote del suddetto Gabriel, padre di Raymond Valensi, che chiamerò Gabriel Valensi II, ottenne poi nel 1848 la nazionalità francese, in segno di riconoscimento della sua importante attività in favore della Francia. Suo figlio Raymond fece filtrare la falsa notizia di essere anche lui francese ingannando tutti. Soltanto io, grazie alle mie ricerche archivistiche (Raymond era già morto da circa sessant’anni), scoprii che Raymond non era francese in quanto era nato nel 1847, quando il padre stesso non aveva ancora ottenuto la naturalizzazione. Le mie indagini rivelarono che Raymond divenne francese in Francia, per naturalizzazione, soltanto nel luglio 1873, evento mantenuto segreto. Nessuno d’altronde aveva saputo che nel 1866 Raymond aveva tentato di iscriversi all’École Polytechnique, una università di carattere militare, ciò che gli fu rifiutato perché solo i francesi erano ammessi. Raymond ripiegò sull’École Centrale, una istituzione anch’essa rinomata e aperta agli stranieri, e ciò fu naturalmente noto.
Giunto all’apice del potere Raymond negava ormai apertamente ogni origine toscana e accennava a una diretta discendenza francese…Gli andò bene e politicamente ciò lo aiutò nella sua folgorante carriera. Se dovessi proprio trovargli un attenuante rispetto a questi imbrogli indicherei l’ingiustizia per cui la carriera di una persona capace e meritevole può essere ostacolata a causa delle proprie origini etniche. Con tutte le sue indubbie qualità e con tutto il suo sincero amore per la Francia l’ascensione politica di Raymond sarebbe stata compromessa se si fosse saputo egli era stato in origine un semplice suddito del Granduca di Toscana (neanche italiano), nazionalità revocata 1822 dal Granduca, ciò che lo riduceva alla condizione di suddito del Bey di Tunisi e quindi considerato dhimmi, (estraneo in quanto non musulmano). Il fatto che Raymond fosse ebreo era in sé un problema visto che il razzismo era molto diffuso tra i francesi e non lo si poteva nascondere: qui sta l’abilità di Raymond, che seppe abilmente utilizzare la sua lunga permanenza a Parigi durata una decina d’anni durante i quali egli aveva ampiamente lavato i suoi panni ebraici nella Senna, presentandosi al suo ritorno a Tunisi con una perfetta elocuzione metropolitana e potendo contare per sua fortuna su di una prestanza fisica che era la negazione delle caricature ebraiche, facendolo sembrare come un degno discendente di Vercingetorice. Nelle sue frequentazioni egli sceglieva dei personaggi vieille France, che abbagliava con una recitazione convincente degna di un attore memorabile. Il suo interlocutore, che egli associava anche ai suoi affari e che sceglieva con fiducia quale gestore dei propri affari quando si assentava, non solo dimenticava che egli fosse ebreo, ma era portato a credere che fra loro due quello che era più autenticamente francese era Raymond e non lui stesso. Va letto, nel periodo delle leggi razziali della Francia di Vichy, il discorso funebre in suo onore pronunciato da Jean Ventre, cattolico e Presidente della Camera di Commercio, cui era legato da una profonda amicizia (cfr. In Fuga dall’Inquisizione, p. 371). Cito solo queste righe: «Noi ritroviamo e dobbiamo salutare nel Signor Raymond Valensi tutte le qualità di quei vecchi francesi del periodo che ha preceduto il Protettorato. […]». Il Protettorato francese fu instaurato nel 1881 e nel periodo che ha preceduto il Protettorato, fino al 1873, Raymond non era francese, ma questo Ventre lo ignorava: Raymond gli aveva fatto credere di essere nato francese e di provenire direttamente dalla Francia! Chi era quindi Raymond? Un impostore o un rivoluzionario che conquistava con le sue innate capacità di travestimento il diritto di vivere fino in fondo la sua tempra naturale di francese. Decidete voi.
La segreta delusione di Raymond per la mancata iscrizione a Polytechnique, poteva, per una strana ironia, trasformarsi in un suo titolo di merito. Un discendente di Raymond che ho conosciuto, scelse di iscriversi all’École Centrale, consigliato da sua madre, seguendo l’esempio del nonno Raymond, il quale, secondo lei, non aveva scelto Polytechnique, un’istituzione militare, ma l’École Centrale, i cui indirizzi erano unicamente civili: questo per il suo amore per la pace. Ho dovuto purtroppo disilluderlo.
Malgrado le divergenze politiche rapporti familiari erano affettuosi, come si usa tra parenti stretti, ma dentro di sé il mio bisnonno Raymond era dispiaciuto nel vedere che il nipote Giorgio Boccara non teneva in nessun conto la sua importante posizione (ciò che lo preoccupava per il danno che questo poteva recare alla sua immagine), ma, essendo anche Giorgio un convinto patriota egli era portato a capire i sentimenti del suo discendente italiano. Quanto a mio padre la statura politica irraggiungibile del nonno era fonte di umiliazione in quanto italiano. Una umiliazione tanto più cocente se si pensa che suo padre Isacco, già erede di un’importante e ricca ditta commerciale, aveva improvvisamente perso tutto in seguito ad errate speculazioni. Giorgio tentò quindi di emulare il nonno francese, illustrandosi a favore dell’Italia. Non fu fortunato a causa delle leggi razziali e della guerra.
Non immediatamente, ma a lungo andare la Tunisia indipendente rese molto difficile la presenza italiana nel paese. Tuttavia già prima dell’indipendenza fu salvato in modo imprevisto dalle ristrettezze economiche: benché sembri un paradosso egli assunse la direzione della ditta creata dal suo defunto nonno Raymond Valensi (Brevetti d’invenzione e marchi di fabbrica), rimasta senza altri eredi. Grazie a questa ditta mio padre è vissuto dignitosamente, pagandomi anche gli studi in Italia e inviando importanti risparmi in Francia prima di lasciare la Tunisia. Quello era un mestiere insolito e poco noto, mio padre era ben visto: per cui riuscì lavorare a Tunisi fino all’età della pensione, mentre c’era il fuggi fuggi.
Confinato ancora a Tunisi io cercavo una nuova sposa che facesse da madre alla mia bambina, permettendomi di ricostituire una famiglia normale. La trovai in Italia durante una vacanza in montagna: era insegnante di ruolo in una scuola di Milano: ci piacemmo e quindi la seguii in quella città dove optai per l’insegnamento del francese contemporaneamente a scuola e all’Università. Facevo anche delle traduzioni dall’italiano al francese: avevo quindi poco tempo per risolvere gli antichi problemi filosofico-religiosi.
A un certo momento, avevo circa cinquant’anni, il malessere per il carattere incerto della mia identità si risvegliò e mi misi a studiare. Man mano che procedevo, nei miei vari tentativi, rimanevo però insoddisfatto, benché, ad esempio, il protestantesimo dei valdesi abbia lasciato in me forti tracce, caratterizzate in particolare dalla forte amicizia col pastore Thommy Soggin e col libraio Gioachino Pistone, senza dimenticare il professore Ugo Gastaldi, un protestante al di sopra delle parti, che mi voleva bene. Feci comunque delle importanti ricerche storiche, in particolare sulla nascita del cristianesimo, che mi davano delle grandi, anche incomplete, soddisfazioni. Il sionismo era per il momento una convinzione laica basato su di una dimensione storica nazionale fondata sulla Bibbia, dalla quale conveniva sottrarre quanto vi era di leggendario e di sovrannaturale.
L’ultimo mio tentativo di legarmi a una dimensione ebraica strettamente religiosa avvenne attraverso Lev Chadash, una congregazione riformata appena fondata a Milano. L’esperienza si concluse quando presi coscienza del fatto che tale scelta era più legata alla necessità di socializzare che all’esistenza di un’autentica fede.
Grazie alla lettura di un libro appena pubblicato a Parigi da Lionel Lévy scopersi solo a settant’anni le mie personali origini marraniche (battezzati a forza in Portogallo nel 1497). Era quindi chiaro il motivo della mia difficoltosa identità filosofico-religiosa. Col tempo quelle che ritenevo antiche certezze si disfacevano per lasciare spazio ad opzioni che si ponevano sotto il segno della libertà e del pluralismo. Le mie nuove importanti scoperte furono le opere di George Eliot e Baruch Spinoza, simbolo quest’ultimo di un dichiarato abbandono della fede tradizionale, alla luce di quanto liberamente meditato al termine di un secolo di identitaria incertezza. Ne parlo ampiamente nel mio libro per cui mi concentro ora soltanto sul personaggio attraverso il quale ho scoperto le mie già ignote origini: Lionel Lévy.
A Tunisi, quando non lo conoscevo, egli abitava a poche centinaia di metri da casa nostra. Lionel Lévy era francese perché suo padre, originario di Gibilterra, a Tunisi aveva scelto quella nazionalità per semplice convenienza vista la sua professione di avvocato. Nelle divergenze sorte tra ebrei francesi e italiani, Lévy prese sempre le difese degli ebrei italiani, vittime dell’arroganza degli ebrei francesi: orfano della madre, nata in Toscana, fin da bambino, egli era stato allevato dai nonni convintamente italiani, che tenevano appesi al muro i ritratti dei re d’Italia. Suo nemico politico era Claude Nataf, figlio della sorella di Lionel, ma allevato dai nonni francesi. Ho conosciuto fugacemente Lionel quando ormai si era trasferito in Francia ed è nata una grande amicizia. Le sue divergenze col parente Nataf vanno situate nel quadro delle rivalità già segnalate tra ebrei italiani ed ebrei franco-tunisini. Noi ebrei originari dalle varie parti della penisola siamo diventati italiani con l’Unità d’Italia nel 1861, mentre gli ebrei locali, già sottoposti alle vessazioni infitte loro dagli arabi, con la conquista della Tunisia nel 1881 da parte della Francia venivano invece protetti da questa nuova padrona del paese. Alcuni si naturalizzarono francesi, altri rimasero tunisini, sia per non disgustare il Bey di Tunisi, sia per evitare il servizio militare imposto ai francesi.
La nascita del fascismo in Italia complicò ulteriormente le cose in quanto la fedeltà all’Italia da parte degli ebrei italiani di Tunisi coincideva col forte interesse dell’Italia fascista nella sua difesa dell’italianità in Tunisia. Una situazione transitoria se si pensa alle leggi razziali del fascismo che disgustarono chi si sentì fortemente tradito. Gli ebrei italiani di Tunisi furono i maggiori perdenti delle varie vicende, in quanto furono anche vittime dei francesi all’indomani della Liberazione. I francesi che, con l’aiuto degli angloamericani, avevano liberato la Tunisia dalla presenza del nazismo perseguitavano gli ebrei italiani attraverso una finta equazione: l’Italia è in guerra contro la Francia, quegli ebrei sono italiani, quindi sono anch’essi nemici della Francia. Si finge di ignorare che gli ebrei italiani, colpiti dalle leggi razziali, ormai cittadini di seconda classe, sono anch’essi minacciati dai nazisti. La verità: la Francia della Liberazione mira in realtà ad impadronirsi dei beni degli italiani di Tunisia, tra l’altro espellendoli per sempre dal paese. In questo intento, purtroppo, alcuni studiosi ebrei, tunisini o francesi, condivisero l’assurda gratuita tesi francese degli italiani nemici della Francia!
Perché i lettori italiani non ignorino tali aberranti tesi ho scritto il saggio, Storici ebrei in trincea (RMI, n. 1 – gennaio-aprile 2016). Lo riassumo qui per coloro che non l’abbiano già letto. A Parigi, fra gli ebrei che avevano lasciato la Tunisia alcuni intellettuali ebrei si distinsero in Francia per il modo in cui rievocarono le vicende passate. Tra coloro che svolsero un ruolo decisivo ho già indicato i nomi di Lionel Lévy e di Claude Nataf, fra loro parenti, ma de facto culturalmente avversari. In Francia Nataf si legò con Jacques Taïeb, di lontane origini indigene: insieme crearono nel luglio 1997 la Société d’Histoire des Juifs de Tunisie, un’associazione che, secondo il suo nome, avrebbe dovuto aprirsi al concorso di tutti i transfughi dalla costa africana, compreso quindi Lionel Lévy, difensore nel suo ultimo libro della collettività ebraica italiana (o come il sottoscritto, autore di In fuga dall’Inquisizione). Invece a Lionel Lévy non fu mai permesso di prendere la parola, mentre il mio libro non andava perché scritto in italiano. Nataf dimostrò quanto limitato fosse il proprio concetto dell’identità personale. Dichiarandosi personalmente francese tutto di un pezzo (malgrado le parziali origini italiane) negava ogni possibile multiculturalismo. Mi sono battuto inutilmente perché invitasse Lionel a parlare: secondo lui (come scrivo nel mio Storici ebrei in trincea): «Lionel Lévy non avrebbe potuto partecipare come testimone a un convegno sugli ebrei italiani di Tunisia, perché egli si era arruolato nell’esercito francese».
Dopo la Liberazione parecchi ebrei italiani furono inviati dai francesi in un campo di concentramento, da dove uscirono per essere espulsi nell’Italia ormai liberata. Tutti gli ebrei italiani ebbero i loro beni posti sotto sequestro, a loro fu subito imposto il lavoro obbligatorio. Nei suoi numerosi saggi Nataf non pronuncia una sola parola sulle tribolazioni inflitte agli ebrei italiani. Mentre con un decreto l’amministrazione francese decideva la chiusura della Comunità Portoghese, Nataf applaudiva scrivendo che (traduco): «Politicamente è difficile mantenere un’istituzione con dominante italiana mentre gli italiani sono qualificati di nemici [nemici !] ».
Nataf afferma anche che, dopo la Shoah, l’esistenza di congregazioni differenziate «scandalizza e ad alcuni appare blasfema». Affermazione del tutto gratuita: da che mondo è mondo ci sono sempre stati nell’ebraismo ortodosso delle congregazioni separate a causa di semplici diversità culturali o tradizionali lecite e approvate.
Alcuni ebrei italiani (una minoranza) erano stati iscritti al partito fascista, più per patriottismo che per militanza, come mi hanno confermato le ricerche di archivio a Nantes (sono quasi inesistenti gli ebrei italiani che partecipavano alle numerose manifestazioni fasciste frequentate dai non ebrei).
Tra i detrattori degli ebrei italiani va ricordato Paul Sebag, un ex comunista militante, sposato con una Gallico, ebrea di origine livornese, comunista anch’essa. I comunisti di Tunisi erano un esiguo gruppo di membri di origini diverse. Una volta iscritti al partito veniva annullata ogni precedente identità. I livornesi iscritti ad una comunità religiosa apparivano a chi da questa appartenenza era fuoriuscito come dei ricchi borghesi contrapposti ai poveri ebrei locali. Secondo Sebag quindi, la separazione tra ebrei livornesi ed ebrei tunisini ha una spiegazione del tutto venale: i livornesi, scrive, «si erano stancati di far fronte, con i contributi che erano loro imposti, al mantenimento di una comunità di cui essi non erano che un’infima minoranza». Affermazione malevola e assurda.
Sebag è stato certamente un indispensabile storico sia dell’ebraismo tunisino, sia della Tunisia in generale, ma gli nuoce il personale partito preso nei confronti degli ebrei italiani, di cui fornisce anche notizie errate e non capisce la situazione particolare di chi nel 1861 era diventato italiano, con parità dei diritti civili. Quando nacque il fascismo per gli ebrei italiani di Tunisi si trattò di un evento vissuto da lontano, mentre la Francia mirava a eliminare la presenza degli italiani in Tunisia, offrendo loro dei vantaggi lavorativi in cambio della naturalizzazione. Si mirava così a rafforzare un blocco compatto (che comprendeva anche gli ebrei tunisini) da opporre a una popolazione indigena sottoposta de facto a dominazione coloniale, priva quindi di ogni parvenza di rappresentanza democratica. Attirati dall’offerta di posti di lavoro gli italiani non ebrei, spesso disoccupati, a volte abboccavano, ma gli ebrei, cui l’Italia aveva concesso sessant’anni prima i pieni diritti, non erano pronti per un improvviso cambiamento: in quel momento il fascismo, volenti o nolenti, rappresentava l’Italia. Mio padre, benché fosse necessariamente iscritto al Partito fascista in quanto dirigente per la Tunisia di un ente assicurativo nazionale italiano, non ha mai posseduto una camicia nera né ha mai partecipato a una manifestazione fascista. Gli altri familiari, i cui figli frequentavano la scuola francese perché più affidabile, erano generalmente consci del carattere autoritario del governo italiano del momento. Direi che costituivano una maggioranza silenziosa, che espresse il proprio dissenso, chiedendo massicciamente la naturalizzazione francese al momento delle leggi razziali. Sta di fatto che in seguito all’indipendenza della Tunisia molti di loro si sono stabiliti in Francia, mentre in Italia non è venuto quasi nessuno. A Milano sono praticamente solo.
A proposito di Sebag citerò come conclusione questa sua affermazione, effettuata quando le autorità francesi soppressero l’esistenza della Comunità Portoghese, facendo eco a Nataf: «La sezione portoghese della Comunità israelitica di Tunisi è stata sciolta e l’amministrazione dei beni che ne dipendevano è stata assegnata al Consiglio della Comunità israelitica di Tunisi […]. Questa decisione è stata dettata dalla volontà di mettere fine all’esistenza di un’istituzione in cui gli Ebrei italiani potevano avere un’influenza, inammissibile poiché erano come tutti gli Italiani i cittadini di una potenza nemica». Il solito ritornello.
Se Sebag ha espresso queste parole lo ha potuto fare perché Raymond Valensi, francese convinto, ma presidente per circa quarant’anni di un organismo, cui aderiva una maggioranza d’italiani, era deceduto. La Comunità, detta portoghese per evitare di toccare il delicato problema della rivalità tra membri italiani (i più numerosi) e francesi (più vicini al potere), era il terreno franco in cui la realtà familiare comune prendeva il sopravvento sulle rivalità politiche provocate in modo artificioso dalle proprie rispettive patrie: l’Italia e la Francia. Se Raymond fosse ancora vivo difficilmente la Comunità portoghese sarebbe stata chiusa. Il prestigio di cui Raymond godeva presso le autorità governative francesi era tale che egli era in realtà intoccabile. Quando morì, nel 1942, la Francia dipendeva dal governo di Vichy del maresciallo Pétain, che collaborava col nazismo e che aveva decretato delle leggi razziali che mettevano al bando gli ebrei francesi. Come abbiamo visto si fece finta di ignorare l’ebraicità di Raymond e gli si tributarono dei funerali imponenti, in cui erano uniti il trono e l’altare.
La morte di Raymond ha visto la vittoria di alcuni ebrei franco-tunisini, pronti a disputarsi le spoglie di chi credeva ancora di avere qualcosa da dire in difesa degli ebrei italiani: chi se non Lionel Lévy? Se alcune volte Lévy faceva cilecca per incompleta consultazione delle fonti archivistiche (ciò cui mi sono a lungo dedicato, correggendo i suoi errori: me ne diede atto) egli poteva vantare una superiorità indiscussa: quella della sua profonda conoscenza delle origini dei vari cognomi degli ebrei presenti in Tunisia. Degli sprovveduti, successivamente Paul Sebag e Jacques Taïeb, lo attaccarono, tentando di smentire le origini iberiche degli ebrei europei immigrati e ignorando deliberatamente Lionel, che indicava nei suoi scritti le formulazioni corrette. Scoraggiato per non essere ripetutamente ascoltato, Lévy mi chiese aiuto e quindi pubblicai anch’io a Parigi un altro articolo in sua difesa, dal titolo Refus d’identité? Livournais et Tunisiens (Gen.Ami, Marzo 2009).
Dopo avere dato anch’io un mio personale contributo contro l’ignoranza della controparte (ad es. spiegavo che il cognome Boccara, malgrado le apparenze e la tesi di Sebag, che ne indicava l’origine nella città orientale di Buchara, sulla base delle mie ricerche era invece largamente presente in Portogallo, mentre il cognome Eminente, in apparenza del tutto italiano, lo avevo incontrato in Spagna).
Ho tentato in conclusione di giocare una carta distensiva e scherzosa. Scrivevo tra l’altro: «Ci siamo presi in giro reciprocamente noi altri livornesi e tunisini. Questi ultimi ridevano della cosiddetta arkeka gornia (vocabolo giudeo-arabo intraducibile, che indicava una certa pesantezza dei modi dei livornesi), mentre i primi si facevano beffe dei tunisini per la loro comica pronuncia francese. I livornesi insegnavano ai loro figli le buone maniere (il galateo), mentre i ragazzi tunisini erano più liberi e più felici. L’aspetto complementare che fra i vari gruppi faceva il fascino della nostra vecchia Tunisia dovrebbe unirci, noi che abbiamo raggiunto il crepuscolo della nostra esistenza, incoraggiandoci al rispetto reciproco e, perché no, ad amarci». Nessuna risposta.
Taïeb così descrisse invece gli ebrei livornesi: «Sempre più ricchi, sempre più influenti, godendo della sollecitudine del Consolato d’Italia, i Grâna [livornesi] divennero sempre più arroganti, schiacciando con la loro superbia i loro umili correligionari africani. […] I Grâna con la loro nuova forza, grazie alla loro qualità di Europei, esercitavano, aiutati da una dose di snobismo, un’evidente attrazione su certi Twânsa [Tunisini], rivelata dalla moltiplicazione dei matrimoni tra le due comunità, matrimoni una volta rari». C’è una buona dose di gelosia nei giudizi di Taïeb nei nostri confronti quando a denti stretti ammette che la modernità livornese ha un notevole successo presso i suoi correligionari tunisini (snobismo, lo chiama): aumentano i matrimoni misti e gli dispiace! Non gli sfugge poi il fatto che Livorno fu per i rabbini tunisini il luogo dove si stampavano i testi ebraici di cui avevano bisogno.
Ormai Lionel Lévy, Taïeb e Sebag ci hanno lasciati. Poco prima di morire Sebag donò alla Tunisia parte della sua biblioteca: gli studiosi tunisini gli avevano preparato una degna accoglienza quando giunse a Tunisi per suggellare l’accordo, senonché, inaspettatamente, in quell’occasione Sebag fu fatto segno ad una massiccia manifestazione popolare di evidente carattere antisemita, molto imbarazzante per gli stessi organizzatori.
Questo dettaglio dovrebbe, secondo me, dettarci una maggiore prudenza nell’accapigliarci reciprocamente per futili motivi. In occasione della pubblicazione a Parigi dell’edizione francese del mio In fuga dall’Inquisizione chiesi di partecipare alla presentazione. Fui accontentato (2014). Scelsero come co-presentatore… Nataf, con obbligo di concentrarsi su Raymond Valensi (la Grandeur de la France, quindi). È così che sul web è apparsa una foto di Nataf e me stesso… fianco a fianco. Non risparmiai nella mia esposizione il mio bisnonno, ponendo l’accento su tutte le sue falsificazoni, da me individuate dopo la sua morte: Nataf le perdonava visto furono benefiche per la Francia, e quindi la politica primeggiava sulla morale. Ufficialmente non potevo trascurare l’etica, ma dentro di me non potevo impedirmi di pensare di mio bisnonno: che faccia tosta! Ma anche: che statura!
Come conclusione indicherò il comportamento di mio padre quando lasciò la Tunisia: non venne a Milano, dove vivevo io, ma con mia madre si trasferì a Parigi in quanto tutti gli ebrei che i miei genitori avevano frequentato a Tunisi, compresi i vari familiari Boccara, ex italiani, lì erano emigrati. A Milano c’era il deserto. Mio padre ammise che, rispetto all’Italia, la Francia era una nazione più seria, soprattutto in campo amministrativo (la famosa ENA da dove venivano sfornati i futuri ministri, più attenti dei nostri nel fare i conti: Draghi non c’era ancora). Si iscrisse a Parigi alla sinagoga locale riformata, che apprezzò come un passo avanti verso la modernità. A ottant’anni fece un viaggio in Israele: si sentì per la prima volta veramente a casa. Divenne sionista e, insieme a mia madre, chiese che le loro ceneri fossero trasferite in Israele: cosa fatta. Per me purtroppo era troppo tardi: il suo divieto, quando ero giovane, mi aveva tarpato le ali.
Foto in alto: ebrei in Tunisia