di Fiona Diwan
Sono tra le poche sopravvissute (50), a fronte dei 230 mila bambini morti nel lager. Riescono a scampare la “selezione” per gli esperimenti dei medici nazisti – che uccideranno invece il cuginetto Sergio De Simone -. A guerra finita, verranno internate in un cupo orfanotrofio a Praga e poi trasferite in Inghilterra, curate da Anna Freud per i traumi subiti. Riabbracceranno i genitori due anni dopo la fine della guerra. L’incredibile odissea delle sorelle Andra e Tatiana Bucci diventa oggi un docu-film di Ruggero Gabbai e Marcello Pezzetti: sarà presentato in anteprima a Milano, il 21 gennaio 2020, al cinema Orfeo
La loro storia è un inno alla vita contro cui Auschwitz non ha potuto fare nulla. La loro vita è un dolore che non se ne va, ma che ha saputo mescolarsi al sorriso, generando la forza di mettere al mondo bambini, figli, nipoti e fondare una famiglia. La loro parabola esistenziale è un monumento al riscatto, una vittoria sull’angelo della morte che cede il passo all’angelo della misericordia, affinché la vita possa scorrere avanti. «Di fronte a certi ricordi, tutto mi sembra impossibile. Più vado avanti, più le distanze si accorciano e il passato mi sembra vicino», mi dice Tati, quando la incontro a Lugano. «Ho riscoperto le mie radici ebraiche da adulta, grazie a mia figlia che ha fatto studi ebraici e che oggi vive negli Usa. La mia identità ebraica è inseparabile dalla mia storia, oggi più che mai mi sento ebrea e cerco di osservare feste e tradizioni», mi racconta Andra, mentre ci avviamo verso l’Università della Svizzera Italiana dove parlerà a studenti e cittadinanza svizzera, quasi 900 persone venute ad ascoltare la testimonianza delle sorelle Andra e Tatiana Bucci. «Noi non siamo solo sopravvissute. Abbiamo vissuto. Una vita normale. I nostri genitori sono stati bravi, non ci hanno ossessionato con il passato», dicono.
«Ad Auschwitz, per la prima volta ci rendemmo conto di essere ebree. Loro ci dicevano che lo eravamo ed eravamo convinte che essere ebrei volesse dire vivere così, tra disagi, freddo, fame, baracche, fumo di una ciminiera. Le furtive visite serali della mamma ci aiutarono ad ancorarci alla realtà.
In quei rapidi incontri ci ripeteva ossessivamente di ricordarci i nostri nomi, di non cedere a quel numero tatuato sul braccio, “vi chiamate Tati e Andra Bucci, siete italiane, non dimenticatelo mai”. È stata la sua generosità, la sua voglia di vivere malgrado tutto, la sua testardaggine e il suo amore a salvarci e a farci riabbracciare, molto dopo. Quando ha smesso di venire a trovarci, l’abbiamo creduta morta. La morte era dappertutto a Birkenau. La vita era la morte». Così parlano le sorelle Bucci davanti a una platea di 500 ragazzi e 400 adulti.
La vita era la morte
Le sorelle Bucci sono cattoliche da parte di padre ed ebree da parte di madre. La storia della famiglia materna, i Perlow, segue un iter tristemente classico. Peregrinazioni ebraiche, fughe dai pogrom e dall’indigenza, in cerca di condizioni di vita più stabili: dallo shtetl di Vidrinka, al confine tra Ucraina e Russia, al mare dell’Istria e di Fiume. Un paradiso appena intravisto, prima della tragedia, prima della Risiera di San Sabba, di Trieste, di Birkenau. Dalla padella nella brace, ma loro ancora non lo sanno, mentre si godono le nuotate infantili in quell’Adriatico che a loro appare come un luogo di meraviglia. Andra e Tati hanno sette e cinque anni quando una notte di primavera del 1944, denunciati da un militante fascista, vengono arrestate dai nazisti agli ordini di Franz Stangl. La famiglia Bucci è in casa: tutti vengono presi. Nonna Rosa, che sa già come stanno le cose, si inginocchia, si aggrappa alle gambe del soldato tedesco e lo implora di risparmiare i tre bambini. Con loro c’è infatti anche il cuginetto Sergio De Simone, figlio di zia Gisella. Niente da fare, saranno tutti rinchiusi in una minuscola cella alla Risiera. Almeno sono ancora insieme. Dura poco. Nel giro di una settimana arrivano a Birkenau, nonna Rosa non resiste nemmeno un giorno, mamma Mira invece ce la fa: corromperà le kapò per poter vedere ogni tanto, al buio, le sue bambine, rinchiuse nel blocco Numero 1, quello dei piccoli.
Tati e Andra, travolte dalla Storia
Tra un passato che sprofonda e un presente che scivola nell’oblio, eccole qui le due bambine travolte dalla storia che si tengono per mano mentre entrano nel Kinderblock 1 di Auschwitz-Birkenau, il 4 aprile del 1944. Ed eccole ancora come ci appaiono oggi, ultraottantenni, mentre incontrano i 500 ragazzi delle scuole medie di Lugano, nel Canton Ticino, riuniti nell’Aula Magna dell’USI. Eccole ancora, in questo tiepido autunno del 2019, mentre vanno a piantare le venti rose bianche nel giardino del paesino ticinese di Viganello, in memoria del loro cuginetto Sergio De Simone che invece non è mai tornato da laggiù. Sergio era come un fratellino. Era stato selezionato da Mengele: voleva a tutti i costi rivedere mamma Gisella e non aveva saputo resistere, malgrado fosse stato avvertito da una pietosa blockova, la guardiana del blocco 1, una kapò. Quando Mengele aveva chiesto ai bambini schierati in fila, “Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti”, Andra e Tati erano rimaste immobili ma Sergio no, aveva fatto quel maledetto passo avanti. Era l’inganno escogitato da Mengele per selezionarli senza strepiti né urla. In seguito, Sergio era stato trasportato da Birkenau ad Amburgo insieme al gruppo degli altri 19 bambini-cavie a cui era stato iniettato il bacillo della tubercolosi: bambini finiti tutti impiccati dai loro carcerieri nazisti il 20 aprile 1945, come regalo nel giorno del compleanno di Hitler, dopo essere stati sottoposti a vari esperimenti medici, prima a Birkenau e dopo a Bullenhauser Damm, la scuola di Amburgo scelta come loro prigione e tomba, per non lasciare traccia.
«Ho voluto una targa con i loro nomi, e venti rose bianche per quei bambini, a ricordo di chi è morto solo perché nato ebreo: nascere di una certa religione o di un dato colore della pelle non può e non potrà mai essere una ragione per essere uccisi», dice Micaela Goren Monti, ideatrice della serie di eventi e incontri che hanno condotto le sorelle Bucci a Lugano, appuntamenti organizzati e fortemente voluti dalla Goren Monti Ferrari Foundation, in collaborazione col Corriere del Ticino e con l’USI.
Dopo la liberazione dal KL, a fine guerra, per le due sorelline non accade nessun ritorno a casa. L’odissea sarà ancora lunga. Ci sarà il cupo orfanotrofio di Praga, un altro passaggio crudele. E poi l’Inghilterra, nel centro di recupero diretto da Anna Freud per ragazzini traumatizzati dalla guerra, «un luogo magico, dove siamo rinate e abbiamo ritrovato il sorriso». I genitori le credono morte. Le due piccole credono morta la mamma. Le notizie sono scarse, le ricerche procedono lentamente.
La lingua italiana, intanto, è scomparsa dalla loro memoria, Tati e Andra parlano solo tedesco, poi imparano il ceco, e dopo ancora, l’inglese. Ma il loro nome no, non lo dimenticano. Ed è quello che le salverà, riconnettendole con i genitori, quando finalmente a Lingfield giunge una lettera con i loro nomi; e con dentro la fotografia di papà e mamma, nel dicembre del 1946.
Un documento vivente
Oggi Andra e Tatiana Bucci sono un documento vivente, sono un tempo lontano che ci interroga da vicino, sono due dei 50 bambini che il destino ha salvato, a fronte dei 230 mila bambini uccisi ad Auschwitz.
Andra e Tati Bucci hanno iniziato a raccontare nel 1995. La loro storia è stata oggetto di un cartone animato (reperibile su YouTube) e di una graphic-novel (Alessandra Viola, Rosalba Vitellaro, La stella di Andra e Tati, De Agostini), hanno scritto la loro autobiografia (Noi, bambine ad Auschwitz, Mondadori), c’è un altro libro che ne sfiora le vicende (Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti, di Maria Pia Bernicchia, Proedi editore), e adesso giunge anche il docu-film Kinderblock, l’ultimo inganno, per la regia di Ruggero Gabbai, con lo storico Marcello Pezzetti autore del testo, prodotto da RaiCinema, Fondazione Museo della Shoah di Roma, Forma International.
Il film verrà presentato in anteprima il 21 gennaio 2020 al cinema Orfeo a Milano. «Parlare di Kinderblock e di sperimentazioni mediche sui bambini vuol dire parlare del Male Assoluto. Raccontare la storia di Sergio De Simone e delle sorelline Bucci significa arrivare al capolinea del racconto dell’orrore, oltre non è più possibile andare. La loro storia è ancora troppo poco nota e farla conoscere è importante, specie in quest’epoca di relativismo storico. Narrare è un dovere, lo dobbiamo agli italiani, alla nostra comunità ebraica, agli ebrei tutti. Senza dimenticare che forse, più ancora che per il fatto che sembrassero gemelle, le sorelle Bucci si sono salvate perché erano “miste”. La loro vicenda, insieme a quella del piccolo Sergio, è unica e merita di essere tramandata», dichiara il regista Ruggero Gabbai.
«Abbiamo raccontato molto tardi la nostra storia, anche ai nostri figli», spiegano le sorelle. «Esiste un destino. La vita ha voluto che fossimo qui oggi, noi e non altri, vive. Sergio è sempre con noi, la nostra memoria lo tiene in vita. L’indifferenza si sfida parlando. Hanno voluto distruggerci. Siamo ancora qui».