di Daniele Radzik
Il treno a vapore partirà dalla stazione di Damasco alle 5 di domani mattina, si fermerà a Der’a nel sud est della Siria, da dove poi sarà possibile viaggiare attraverso una linea secondaria fino al porto di Haifa in Israele o proseguire nel deserto verso Amman in Giordania, arrivando infine dopo 1320 chilometri e 48 ore di viaggio nella città santa di Medina in Arabia Saudita.
Non si tratta di un sogno di geo-politica impraticabile nell’immediato futuro, ma di un itinerario ferroviario che è stato veramente realizzato poco più di un secolo fa da Abdulhamid II, uno degli ultimi sultani dell’Impero Ottomano.
La linea ferroviaria dell’Hijaz, inaugurata nel 1906, rappresentò per l’Impero Ottomano, che stava attraversando in quegli anni una crisi irreversibile, una parziale soluzione ai problemi politici, religiosi ed economici che lo affliggevano. Il trasporto di migliaia di passeggeri all’anno rese facilmente raggiungibili Mecca e Medina da parte dei fedeli musulmani, evitando i lunghi viaggi con le carovane che solitamente richiedevano due settimane. Inoltre le merci sarebbero arrivate facilmente dai luoghi più lontani dell’Impero e le truppe avrebbero potuto essere trasportate velocemente da un posto all’altro.
La nuova linea aveva un unico grave problema: i beduini del deserto la ritenevano l’Asino del demonio, perché metteva in pericolo la principale fonte del loro guadagno, incentrata sulla scorta e la protezione delle carovane. Per questo sin da subito i beduini decisero di attaccare e di danneggiare i binari, le vetture e le stazioni (durante il primo anno di apertura si contarono più di cento incursioni con morti e feriti). Per contrastare questo pericolo il governo ottomano impiegò centinaia di militari per vigilare il percorso e presidiare le stazioni. Per il resto si poteva viaggiare comodamente, anche per la presenza di vetture di prima classe, di un servizio ristorante a richiesta e perfino di una carrozza adibita a moschea dotata di un minareto pieghevole, mentre le riserve d’acqua erano garantite da cisterne poste lungo il percorso.
Il treno dell’Hijaz è il protagonista silenzioso della nostra storia perché, partito da Damasco il 20 agosto 1920, quando si fermò nella stazioncina siriana di Khirbat Al Ghazali, 17 km a nord di Der’a, venne assalito da una banda di ribelli sconosciuti che uccise a fucilate alcuni passeggeri, due dignitari appartenenti al governo filo francese di Damasco (il primo ministro e il capo del consiglio della Shura) e svariati stranieri, tra cui un ufficiale ebreo della Marina militare italiana, Angelo Levi Bianchini.
Oggi il suo nome è dimenticato, ma a ricordarci che quest’uomo svolse un ruolo importante nella storia del Sionismo rimane una strada a lui intitolata a Gerusalemme, in prossimità del tempio italiano, ed una foto sbiadita dal tempo che lo ritrae come stretto collaboratore di Chaim Weizmann, uno dei personaggi più importanti per la creazione del futuro stato di Israele e suo primo Presidente.
Ma chi era Angelo Levi Bianchini e quale fu il suo posto nella Storia?
Era nato a Venezia il 4 febbraio 1877 da una famiglia ebraica benestante; riuscì ad entrare all’Accademia navale di Livorno, ottenendo il grado di guardiamarina nel 1894. Durante la prima guerra mondiale fu al comando di un cacciatorpediniere che operò in Estremo Oriente, distinguendosi per coraggio e competenza, e nel 1917 venne richiamato a Roma al Ministero della Marina, per svolgere compiti «riservati».
Proprio in quegli anni il governo del Regno d’Italia, che aveva occupato militarmente la Tripolitania e parte della Cirenaica dopo la campagna di Libia (1911-1912), in un’ottica di ulteriore espansione coloniale aveva iniziato un’azione diplomatica su più fronti per cercare di accrescere la propria influenza economica e politica anche nel Mediterraneo orientale e in Palestina in particolare, cercando di evitare la spartizione del Levante che Gran Bretagna e Francia avevano in segreto già architettato.
Per perseguire tale scopo il primo ministro del Regno d’Italia, Paolo Boselli, e il ministro degli Affari Esteri, Sidney Sonnino, ritennero che sostenere politicamente il Sionismo, il movimento che intendeva creare uno stato in Palestina per gli ebrei, avrebbe potuto aumentare le simpatie verso l’Italia delle numerose comunità ebraiche sefardite sparse nel Mediterraneo orientale (in Egitto, Smirne, Salonicco, Siria, Libia), primo passo verso la costituzione di un’unica potente federazione sotto controllo dello Stato italiano, che si sarebbe così potuto inserire in quelle zone. I due ministri dimostrarono perciò grande interesse quando l’avvocato ebreo veneziano Angelo Sullam, uno dei più attivi ed influenti membri della Federazione Sionistica Italiana, propose loro di aggiungere il cugino Angelo Levi Bianchini, valente ufficiale, alla lista delle personalità ebraiche, in gran parte inglesi, in procinto di partire per la Palestina nel maggio 1918 come membri dell’appena creata Commissione Sionistica, sotto la direzione di Chaim Weizmann.
Quando Angelo Levi Bianchini iniziò la prima delle sue tre missioni in Palestina, trovò un territorio che era appena stato strappato agli Ottomani dalle truppe britanniche del generale Allenby (Gerusalemme era stata da loro conquistata nel dicembre 1917, mentre nel nord ancora si combatteva).
La Commissione Sionistica, negli anni in cui operò in Palestina dal 1918 al 1923, quando poi si trasformò in Agenzia Ebraica, svolse un ruolo fondamentale per la vita degli immigrati ebrei che giungevano dall’Europa, aiutandoli nell’accoglienza, nella ricerca del lavoro, in campo sanitario e in quello dell’educazione (nel 1918 iniziò la costruzione della prima università a Gerusalemme), fungendo da governo in pectore degli ebrei ed interloquendo con il governo militare inglese. Angelo Levi Bianchini partecipò con entusiasmo all’attività della Commissione, dedicandosi soprattutto alla gestione dell’arrivo in Palestina degli ebrei sefarditi e alla difesa della comunità ebraica locale minacciata dall’ostilità crescente dei residenti arabi che proprio in quegli anni incominciava a diventare violenta (nel marzo 1920 otto coloni ebrei, guidati da Iosef Trumpeldor, vennero assassinati a Tel Chai, in Galilea).
Levi Bianchini organizzò una vera e propria rete di intelligence con informatori inviati perfino in Egitto, che gli consentì di collaborare con i militari inglesi, riuscendo a sventare numerosi atti persecutori da parte degli arabi contro gli ebrei.
Un omicidio mirato?
Purtroppo durante la sua terza missione, il 20 agosto 1920, mentre viaggiava sul treno che da Damasco lo riportava a Haifa, Angelo venne ucciso in circostanze misteriose. Grazie a recenti ricerche è stato possibile far luce su questa vicenda. Da un articolo del 24 agosto 1920 del giornale Doar Ayom, a firma di Itamar ben Avi, figlio del celebre Eliezer Ben Yehuda, padre della moderna lingua ebraica, sono emersi particolari del viaggio che Ben Avi stesso aveva compiuto pochi giorni prima da Alessandria d’Egitto a Gerusalemme, in compagnia di Angelo Levi Bianchini.
Un’altra testimonianza è quella dello storico siriano Sami Moubayed, discendente di uno dei dignitari partiti con il treno da Damasco il 20 agosto e coinvolti nell’eccidio, che alcuni anni fa, basandosi sulle carte di famiglia, ha rivelato di essere venuto a conoscenza del fatto che l’assalto era stato condotto da un gruppo di drusi della regione dell’Hauran, che si erano ribellati al governo francese di Damasco a causa dell’eccessivo carico fiscale.
Sullo stesso treno viaggiavano anche i fratelli ebrei inglesi Mendel e Aharon Goodman che, salvatisi in modo rocambolesco, lasciarono un diario da loro scritto, di recente rinvenuto, in cui rievocando il pericolo scampato, riferivano di aver notato più volte in viaggio la presenza dell’ufficiale italiano, il quale si aggirava nervosamente nel corridoio della vettura al momento dello scontro a fuoco.
Il corpo di Angelo Levi Bianchini venne ritrovato in un campo diversi mesi dopo la sua uccisione dal fratello Achille giunto dall’Italia e riportato in seguito a Torino, dove ancor oggi riposa.