di Marina Gersony
Un curriculum di studio e carriera da prima pagina. Anni di lavoro sui più prestigiosi stage del mondo, a fianco di Luciano Pavarotti. Ma anche una yiddische mame che non rinuncia al gefilte fish. La soprano americana, milanese d’adozione, insegna a usare la voce per curare il corpo, la psiche e le emozioni. E magari scoprire il talento
Amo Milano, da sempre è la mia città preferita. È aperta, vitale e cosmopolita. Soprattutto negli ultimi anni si è trasformata in un “happening place” all’avanguardia e innovativo. Ho girato il mondo, ma è qui che mi sento più a casa». Madelyn Renée non ha dubbi. Da quasi quarant’anni la nota soprano americana, naturalizzata italiana, ha scelto di vivere nel capoluogo lombardo. Questo non significa che si sia scordata delle sue radici negli Stati Uniti, dove vivono i suoi parenti più stretti e alcuni degli amici più cari. Nata a Boston, Madelyn è cresciuta in una famiglia ebraica. Ha frequentato la Cornell University, si è laureata presso la prestigiosa Juilliard School of Music di New York e da lì è iniziata la sua carriera operistica che l’ha portata sui palchi di tutto il mondo: dal Metropolitan alla Scala passando per la Staatsoper di Vienna, l’Opéra National di Parigi, la Deutsche Oper di Berlino, il Festival di Salisburgo (per citarne alcuni) e cantando sotto la direzione di celebri direttori d’orchestra come Sir Georg Solti, Richard Bonynge, James Levine, Lorin Maazel, Luciano Berio e Daniel Barenboim…
Una carriera sfolgorante che prosegue fra premi, riconoscimenti e soddisfazioni. Tra un concerto e l’altro, oggi l’artista mette a disposizione la sua voce organizzando masterclass per giovani cantanti lirici e workshop per aiutare a conoscere il potenziale vocale che ognuno di noi possiede. Uno fra tutti il format Cantachetipassa un paio di anni fa, ideato da Io donna in collaborazione con le Gallerie d’Italia e l’Associazione per Mito Onlus. L’iniziativa ha avuto un notevole successo soprattutto grazie all’esperienza e all’empatia che la cantante ha saputo trasmettere al pubblico.
In Italia, la splendida soprano ha trovato anche l’amore: da un primo matrimonio con Andrea Monti, attuale direttore de La Gazzetta dello Sport, è nato Alex, amatissimo figlio oggi ventottenne. In seguito si è sposata con Alberto Saravalle, professore di Diritto dell’Unione europea nell’Università di Padova nonché partner e Past President di Bonelli Erede, uno dei principali studi legali in Italia, di cui è stato tra i fondatori. L’abbiamo incontrata per un’intervista nell’appartamento milanese, circondata da oggetti, foto e un’infinità di libri che esprimono la personalità raffinata di Madelyn e di suo marito Alberto, entrambi cittadini del mondo fieri della loro appartenenza ebraica.
Si aspettava tutto questo successo per il workshop Cantachetipassa?
Quando me l’ha proposto nel 2017 Anna Gastel, Presidente Mito, ho accettato con entusiasmo. Penso che lo stress interferisca sulla salute e cantare sia un mezzo efficace e meraviglioso per scaricare le emozioni. In veste di cantante ho provato in prima persona i benefici che il canto produce sul nostro corpo fisico, mentale, emotivo. Scientificamente è provato che abbassa il livello di cortisolo, migliora la funzionalità cardiaca e soprattutto l’umore. Cantare insieme è anche un modo innovativo e divertente per entrare in relazione con gli altri. La gente ha paura della propria voce per vari motivi, perché tradisce emozioni come gioia, dolore, tensione, frustrazione e rabbia. Questo perché è legata al nostro apparato respiratorio, dunque il fiato. Una buona respirazione ci regala la calma. Del resto non è certo una novità, tutte le religioni orientali si basano su questo principio. Ho visto in questi workshop la gente trasformata. Per questo abbiamo deciso di organizzarne uno in via Guastalla, per la comunità: LiberaLa Voce, rimandato per via del Covid, si terrà in autunno, per imparare a usare la voce e scaricare le tensioni.
Che tipo di canzoni fa cantare?
Dopo aver “riscaldato” la voce come fanno i cantanti professionisti, iniziamo con canzoni leggere e motivi classici che conoscono tutti. A quel punto le persone si lasciano andare, si crea un’atmosfera di armonia e cantare diventa un gioco. È un modo di socializzare in un mondo dove la tecnologia ci ha resi sempre più solitari e isolati. Questi workshop hanno funzionato perché tutti si sentivano a proprio agio, senza imbarazzi, sapendo che non erano lì per fare un’audizione per X Factor o La Scala.
Lei ha anche cantato con Pavarotti.
L’ho conosciuto durante una masterclass quando studiavo alla Juilliard School of Music. È stato un incontro che ha profondamente segnato la mia vita e il mio percorso personale e artistico. Sono diventata la sua prima allieva, ho studiato e lavorato con lui per nove anni come assistente in tutto il mondo mentre iniziavo la mia carriera. La nostra amicizia è durata per tutta la vita fino alla sua morte nel 2007.
Come è stato lavorare con lui?
Un’arma a doppio taglio. Ero giovane e sentivo la pressione di dover essere all’altezza sua e del pubblico. Non è stato facile ma è stata una scuola di vita straordinaria perché ho conosciuto il mondo della lirica più prestigioso. Ho incontrato grandi direttori, cantanti e registi. Il contatto con questi mostri sacri mi ha formata e stimolata. Ho capito l’importanza di non accontentarsi mai, di studiare sempre, di scoprire il senso del sacrificio e capire quello che c’è dietro il talento e la vita quotidiana di un grande artista. “You are as good as your last performance” è stato il “motto” di Luciano. Ho cantato al Madison Square Garden con Luciano in diretta televisiva nel 1986, è stato come arrivare in cima all’Everest. Era un grande collega, generoso sul palcoscenico e cercava sempre di aiutare i giovani. Eravamo on the road, con mille cose da organizzare tra prove, interviste, registrazioni, appuntamenti, la scelta del guardaroba, i dischi, la dieta… E guai se dimenticavi le sue bretelle e il fazzoletto!.
Può raccontare qualche aneddoto?
Nel 1980 eravamo al Kennedy Center di Washington. Improvvisamente Luciano mi trascinò da dietro le quinte sul palcoscenico e mi trovai a fare il duetto della Bohème così d’emblée. Ero terrorizzata. Non me l’aspettavo ma per fortuna andò benissimo. Come Maestro era molto severo ed esigente, mi ha fatto piangere spesso, si arrabbiava moltissimo, però quando facevo bene era orgoglioso e prodigo di complimenti. Un rimpianto? Mi sarebbe piaciuto cantare Tosca con lui. Tuttavia, quando hanno riaperto il teatro a Prato nel 1999, la Rai mandò in onda il servizio in cui cantavo Vissi d’arte durante il tiggì di mezzogiorno. Improvvisamente il mio cellulare squillò. Era Luciano: “Brava baby – mi disse – ti ho appena sentito in tivù mentre mangiavo!”. Ne fui molto orgogliosa. Sono rimasta legata alle sue tre figlie. Una di loro mi ha chiesto di partecipare al film documentario di Ron Howard dedicato a Luciano, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2019. Racconta la sua storia attraverso le testimonianze, gli incontri e il suo incredibile percorso da figlio di un fornaio a superstar internazionale, capace di trasformare per sempre il mondo dell’opera.
Ultima domanda: cosa significa per lei essere ebrea?
Significa molto per me e anche per mio marito che tra l’altro discende da illustri rabbini e studiosi di Talmud a Venezia. Ci ha uniti in matrimonio Rav Arbib. I miei genitori sono nati a New York con radici alsaziane e ungheresi da parte di mia madre; russe e inglesi da parte di mio padre. Siamo tutti ashkenaziti. Sono cresciuta nella tradizione “conservative” e possiedo una forte identità ebraica. Dell’ebraismo mi piace il dialogo diretto che ognuno può avere con HaShem attraverso la propria coscienza. Nonostante le leggi religiose, l’ebraismo lascia spazio alle interpretazioni che consentono ad ogni ebreo di intraprendere un proprio percorso interiore. A Milano ho trovato calore e accoglienza anche da parte dei Chabbad-Lubavitch milanesi: sia quando mio figlio ha fatto il suo Bar Mitzvah al Carlo Tenca con Rav Hazan, sia quando ha studiato la parashà con Mendy Minkovitz e Mendy Kaplan. Ho avuto l’onore di cominciare a studiare l’ebraico con la Rebetzin Bessie Garelik, cosa che vorrei riprendere un giorno. Per il resto, in famiglia seguiamo le tradizioni ebraiche, onoriamo le festività, e andiamo in sinagoga in via Guastalla. Trovo molto significativo e bellissimo il concetto di mitzvot, ossia di fare qualcosa per gli altri nella mia vita di tutti giorni. Continuo ad apprezzare i cibi tradizionali ashkenaziti che cucinava mia mamma, penso ai gefilte fish, chopped liver, chicken soup con matzah balls, challot e tutto ciò che è legato alle feste più importanti. Per me il cibo è amore. Cosa dire ancora? Mi rendo conto di essere la caricatura della tipica yiddishe mame, ossessionata dal cibo, iper-protettiva e sempre presente. Quando sento certi jewish jokes mi identifico in pieno.