di Vittorio Robiati Bendaud
Quello che Adelphi ha pubblicato da pochi mesi è un romanzo estremo, se estreme possono definirsi le ultime pagine consegnateci da un uomo che nella vita è stato anzitutto uno scrittore. “Il bene sia con voi” è il titolo della raccolta di otto racconti scritti da Vasiliij Grossman tra il 1943 e il 1963, l’anno immediatamente precedente la sua scomparsa. Va da sé, quindi, che queste pagine possano essere considerate una sorta di lascito dell’autore di “Vita e destino”.
Il dramma dell’incrocio misterioso e doloroso tra vita e morte fa da sfondo, e il viaggio che si dipana lungo i venti anni che abbracciano i vari racconti, cozza contro le stragi naziste e la loro lucida follia, i massacri sovietici, gli sviluppi del regime comunista russo, il dilagare inarrestabile e desolante di violenza, guerra e distruzione.
L’ultimo racconto, toccante e poetico, consiste nella riscrittura degli appunti del viaggio che lo scrittore fece nell’autunno del 1961 in Armenia, e l’ultima frase è quella che dà il titolo all’intera raccolta. Fa riflettere che il lungo racconto, sospeso tra realtà e visione, si concentri sul popolo armeno il cui sterminio aprì il drammatico secolo da poco trascorso. Nella filigrana di questo racconto, gli uomini si incontrano, si trovano legati assieme da sentimenti inattesi e profondissimi di comunione, giungendo alla conclusione: “Barev dzes -il bene sia con voi, armeni e non armeni!”. Queste le ultime parole dello scrittore.
Grossman, come è noto, negli ultimi anni della sua vita cadde in disgrazia, conobbe la povertà, l’infermità, la crudeltà dell’isolamento sociale e culturale. E qui, nella cornice dei drammi del Novecento in cui si sviluppò dolorosamente la sua biografia personale, lo scrittore sorprende, addita una speranza, prende vigorosamente per mano il lettore contemporaneo nutrendolo di un afflato etico potente e intriso di religiosità.
Questo libro, difficile e asciutto, talvolta lirico talvolta ironico, dalla sua prima alla sua ultima pagina è una radicale e continua interrogazione esistenziale e morale, priva di buonismi o di inutile retorica.
In Riposo eterno, parafrasando Von Clausewitz, Grossman afferma non senza ironia che “il cimitero è la prosecuzione della vita con altri mezzi”. Ciononostante, nelle righe conclusive suggella il racconto con parole che hanno tutta la forza di un postulato matematico “Non c’è nulla di più bello al mondo del cuore vivo di un uomo. Della sua capacità di amare, credere, perdonare, sacrificare ogni cosa in nome dell’amore”.
Il problema morale è il filo rosso che attraversa tutti i racconti. Grossman sembra continuare a chiedersi: come può una piccola azione dimostrarsi enorme nella sua purezza, eloquente e densa di moralità? Come può un’azione altrettanto piccola, al contrario, rivelarsi un baratro di meschinità, di miseria, di cattiveria? Come può, ancora, l’uomo trasformarsi in un assassino, persecutore, delatore? Sarà ancora possibile il Bene dopo l’assuefazione a tante brutture? Grossman ci offre una risposta inevitabilmente fragile o, meglio, estremamente delicata: esiste l’umano nell’uomo, quel tratto distintivo che è la nostra essenza più intima. Scrive Grossman: “L’umano nell’uomo va incontro alla propria sorte, che in ogni epoca fa storia a sé, è diversa da quella dell’epoca precedente. Un tratto comune c’è, però: il destino è sempre, immancabilmente, difficile…” E ancora: “La forza della vita, la forza dell’umano nell’uomo è enorme, e nemmeno la forma più potente e perfetta di violenza può soggiogarla. Può solamente ucciderla”.
Un esempio toccante a questo proposito è quello del racconto di apertura Il vecchio maestro. Avviati verso la fossa comune e pronti per essere fucilati dai nazisti, due ebrei, un vecchio maestro e una bambina, si premurano tacitamente di sorreggersi a vicenda. “Come posso tranquillizzarla? Come posso illuderla?”, pensava il vecchio con infinita tristezza; la bambina dal canto suo gli coprì gli occhi con le sue manine, dicendogli “Maestro, non guardare da quella parte, se no ti spaventi”.