di Marina Gersony
Tra i grandi scrittori e protagonisti del nostro tempo, Claudio Magris verrà premiato come Uomo dell’Anno 2018 dall’Associazione Museo D’Arte di Tel Aviv (AMATA).
In un’epoca “gommosa”, dove tutto si trasforma, dobbiamo riconquistare uno sguardo fecondo e progettuale sulla vita, dice lo scrittore triestino. E combattere sfiducia e pessimismo, senza mai arrenderci
Considerato tra i maggiori intellettuali del Novecento, germanista, docente universitario e senatore italiano (nella XII Legislatura), tra i primi a rivalutare il filone letterario di matrice ebraica all’interno della letteratura mitteleuropea, Claudio Magris, 78 anni, nato a Trieste, è oggi uno dei grandi saggisti e scrittori del nostro tempo, autore di libri memorabili come Danubio (Vincitore Premio Bagutta), Microcosmi (Vincitore Premio Strega), Alla cieca, Non luogo a procedere (scelto dalla Lettura come miglior libro e miglior autore dell’anno), tutti editi da Garzanti. In occasione del 70esimo Anniversario della Fondazione dello Stato di Israele, l’Associazione del Museo D’Arte di Tel Aviv (A.M.A.T.A) ha deciso di nominare Claudio Magris Uomo dell’Anno 2018. La premiazione si svolgerà il prossimo 8 maggio nelle sale di Palazzo Parigi in zona Brera a Milano alla presenza del Sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, e delle istituzioni. Aperitivo, cena, musica e una breve lectio magistralis del Professor Magris per onorare il suo impegno e la sua carriera nel mondo della cultura e festeggiare i 70 anni della Fondazione dello Stato di Israele. Il Museo d’Arte di Tel Aviv, a cui andranno i proventi della serata, è stato fondato da Meir Dizengoff, il primo sindaco della città. Il Museo è considerato nel mondo dell’arte e della cultura tra le più insigni guide per il contemporaneo. (Per partecipare alla Cena di Gala e per la quota di adesione telefonare ad A.M.A.T.A al numero 335 7034531; oppure scrivere all’email a.m.a.t.a@email.it. Per ragioni di sicurezza è necessario avere i nominativi dei partecipanti entro e non oltre il 15 Aprile 2018).
Per l’occasione, l’abbiamo incontrato. Ecco l’intervista.
Il secolo scorso è stato definito “Secolo breve” dallo storico britannico Eric Hobsbawm; il filosofo polacco Zygmunt Bauman ha usato l’espressione “Società liquida” per illustrare l’assenza di qualunque riferimento “solido” per l’uomo di oggi; a sua volta, il guru del marketing Theodore Levitt è noto per aver coniato il termine “Globalizzazione” riferito all’economia, concetto che si è poi ampliato inglobando tendenze, idee e problematiche diffuse su scala mondiale grazie ai mezzi di comunicazione. Lei come definirebbe il momento storico che stiamo attraversando?
È difficile dare un nome, tutte o molte definizioni hanno una loro ragione. Per esempio quello che sostiene Hobsbawm, con il quale ho avuto un rapporto di amicizia, è verissimo. È però anche verissimo che da un certo punto di vista il Secolo breve inizia un po’ prima del Novecento e finisce non si sa bene quando. Sono convinto che noi oggi ci troviamo nella Quarta guerra mondiale e non nella Terza, come ha detto il Papa. La Terza c’è già stata, la cosiddetta Guerra Fredda, fra Occidente e mondo sovietico, finita con la sconfitta di quest’ultimo e 45 milioni di morti in quegli anni, tra il 1945 e il 1989 nel mondo. Adesso c’è guerra ovunque, tutti combattono contro tutti, soltanto non si sa bene chi contro chi (ad esempio: Assad è un nostro alleato o un nostro nemico?). Questo momento storico è di enorme frammentazione; una frammentazione colloidale, ossia uno stato quasi intermedio tra lo stato liquido, definizione che mi trova perfettamente consenziente, e uno stato gommoso che continuamente si allarga, si restringe, avvolge tutto e cambia continuamente aspetto.
Non resta che essere pessimisti, quindi?
Karl Valentin, cabarettista tedesco amico di Brecht, affermò: «Una volta il futuro era migliore». E per la prima volta si ha l’impressione che l’umanità abbia perso l’idea della speranza e del futuro. Non c’è più l’idea che si possa migliorare e correggere il mondo. Penso che questo sia gravissimo. Senza l’idea che il mondo possa essere migliorato, senza un po’ di spirito profetico, messianico, tradotto in termini razionali, politici, le cose non funzionano. Ricordo un convegno a Blois, in Francia, nel 1989, organizzato da Jack Lang, allora Ministro della Cultura. Partecipavano scrittori e qualche politico della cosiddetta “Altra Europa”. In quei giorni stava esplodendo la grande protesta a Berlino Est. Un giovane regista tedesco, molto impegnato nelle proteste berlinesi, raccontò emozionato quello che stava succedendo. Prima di ripartire, per riprendere il suo posto nella protesta a Berlino Est, disse: «Impossibile fare previsioni su quello che succederà, una cosa purtroppo è certa, il Muro durerà ancora molti anni». Due giorni dopo il Muro non esisteva più e lui era tra coloro che avevano contribuito ad abbatterlo. Anch’io pensavo che non sarebbe mai accaduto. Siamo ciechi conservatori, non riusciamo a credere che la realtà possa cambiare. Invece la realtà cambia, si trasforma, talvolta quasi inavvertitamente, talvolta in misura eclatante. Le cose cambiano, ora in meglio ora in peggio.
Anche le lingue subiscono una continua trasformazione. Migrazioni, turismo, delocalizzazioni delle aziende, letteratura inclusa, rendono il linguaggio sempre più ibrido. Oggi si parla e si scrive sempre di più in “globish”, un inglese corrotto e impastato di Internet, emoticons, pubblicità, musica e fumetti, usato da circa due terzi della popolazione terrestre. Come si evolveranno le lingue in futuro?
È un discorso difficilissimo. Oggi ci troviamo dinanzi, forse per la prima volta nella storia, a una commistione, una mésalliance, un amalgama di nuovi linguaggi. Da una parte si tratta di un processo vitale, quasi corporeo, che poi diventa culturale e s’innesta sulle tradizioni. Dall’altra parte c’è anche un distruttivo e arido processo di perdita, di falsificazione, di omologazione del linguaggio. Personalmente ho simpatia per la trasformazione delle lingue, ma c’è differenza tra la trasformazione dell’italiano nei secoli, creativa e vitale fondata insieme sulla continuità e sull’apertura al nuovo, e rigide e morte formule come scrivere per esempio, «ci sei» con il numero, c6. Questo tipo di trasformazione equivale a una perdita totale di espressività. Per Singer, che ho conosciuto bene – uno dei grandi incontri della mia vita -, la lingua era lo Yiddish. Celebre è il diverbio che ebbe con Menachem Begin proprio su questo tema, riportato dal figlio Israel Zamir. «Begin gli disse che lo Yiddish non sarebbe mai stato come l’ebraico. Era impossibile dare un ordine a un soldato in quella lingua. Com’è possibile gestire un esercito in Yiddish?, gli chiese. Mio padre rispose che lo Yiddish non era destinato all’esercito. Lo Yiddish era una lingua di pace». (Lo scontro tra il Primo Ministro israeliano e Singer è descritto dal figlio di Singer, Israel Zamir, nel memoir Journey to my father, Isaac Bashevis Singer, Arcade Publishing, ndr). Aveva ragione Singer. La letteratura yiddish esprime pienamente le passioni universali come l’amore paterno, l’amore coniugale, la sofferenza, la seduzione, l’orrore o l’infrazione. Colpisce in essa la forza, il senso dell’umorismo, un rapporto con la divinità di assoluta franchezza. Lo dicono tante storie…
Ce ne può raccontare una?
Un uomo molto pio sta tornando di notte allo shtetl e casca in un burrone. Si aggrappa a un alberello, guarda il burrone, sente un fiume rumoreggiare mentre l’arboscello comincia a sradicarsi. Grida: «C’è qualcuno? C’è qualcuno?». A un certo punto sente una voce che dice: «Non temere, Figlio mio. Tu mi sei sempre stato fedele. Ci sono qui io, il tuo Signore». Risponde l’uomo pio: «Non c’è nessun altro?»… Lo Yiddish è una lingua che ha tutta l’immediatezza del dialetto, la rapidità del parlare quotidiano, della casualità, l’intensità dei sentimenti, il senso profondo della vita mescolato al riso, la commistione, talora anche comica e storpiata ma straordinariamente creativa. Ma è anche la lingua della tenerezza. A parte la grandezza e l’intensità umana delle tradizioni ebraiche, mi ha colpito in esse il valore anche etico e religioso di raccontare storie. Religioso perché lega, parola che viene da religere, unire…
Lei scrisse in Microcosmi, nel 1998: «I tedeschi senza ebrei sono un corpo carente di una sostanza necessaria all’organismo; gli ebrei sono più autosufficienti, ma in quasi ogni ebreo c’è qualcosa di tedesco. Ogni purezza etnica conduce al rachitismo e al gozzismo. Il nazismo, come ogni barbarie, è stato anche imbecille e autolesionista, sterminando milioni di ebrei, ha mutilato la civiltà tedesca e distrutto, forse per sempre, quella mitteleuropea». Cosa pensa del mondo attuale, sempre più contaminato e meticcio?
Il diverso è per eccellenza un protagonista, però contemporaneamente – in nome del rispetto per il diverso, ma di un rispetto involontariamente rovesciato nel suo opposto – in Danimarca ad esempio anni fa ho letto che sono stati tolti dalle edizioni scolastiche di Andersen certi riferimenti al Cristianesimo. Questa è la negazione dell’incontro perché per incontrarsi bisogna conoscersi. Una comunità endogamica è un disastro, come ogni autarchia. Naturalmente l’apertura va regolata. Ci vuole buonsenso. Il meticcio è un uomo o una donna con la sua storia. Non va demonizzato, ma neppure esaltato come l’unico ad avere la dignità di esistere.
Cosa pensa della legge sulla Shoah voluta dal governo nazional-conservatore di Varsavia che prevede fino a tre anni di carcere per chiunque attribuisca alla nazione polacca complicità con i crimini nazisti? (Nel frattempo, dopo le forti tensioni con Israele, il governo ha deciso di congelare «in questa fase» la controversa legge, ndr).
La Polonia credo sia uno dei Paesi più lacerati al mondo. Da un lato esiste una cultura anti-ebraica, e questo è il primo vulnus. Ci sono infinite sfumature nell’antisemitismo; la violenza genocida comincia, alla lontana, con atteggiamenti e frasi di per sé innocue, “sì, certo, gli ebrei, però…”. L’antisemitismo può avere molte facce, molti nomi e molte gradazioni, sino all’atrocità. Sotto altri aspetti la Polonia è un Paese che amo molto, che ha accolto con particolare entusiasmo e affinità i miei libri, che ha avuto una storia tragica e anche eroicamente indomita. È un Paese che peraltro ha anche un retaggio antisemita con sfumature diverse, ma tutte pericolose. Purtroppo in questo periodo la politica polacca sta rivelando pericolose tendenze regressive, contro le quali peraltro i primi a protestare sono molti polacchi che hanno coraggiosamente combattuto prima il nazismo e poi il comunismo, come ad esempio – ma è solo un esempio – il mio amico Adam Michnik. In Polonia è nata anche tanta grande letteratura ebraica e tanta riflessione sull’ebraismo. Egon Schwarz, il saggista viennese che ha scritto Keine Zeit für Eichendorff (Non c’è tempo per Eichendorff), scrisse che dopo l’antisemitismo la cosa peggiore è il filosemitismo.
Questo concetto lei lo ha spiegato in occasione della celebrazione del Giorno della Memoria al Quirinale nel 2009.
Ho spiegato perché il filosemitismo è sospetto: può di fatto indicare una cattiva coscienza oppure la preoccupazione di nasconderla, agli altri o a se stessi; suona talora stridulamente come una excusatio non petita, una affannata ostentazione di sentimenti buoni o politicamente corretti. Il filosemitismo rivela spesso insicurezza e imbarazzo nei confronti degli ebrei e può coprire un represso e livido antisemitismo.
Israele sembra essere sempre di più il capro espiatorio di un profondo antisemitismo. Per citare lo storico Georges Bensoussan, «siamo passati dall’ebreo fautore di guerra, allo Stato di Israele fautore di guerra. La logica intellettuale è sempre la stessa». (Il Foglio, 21 gennaio 2018). Lei cosa ne pensa?
C’è una frase che si sente dire ogni tanto. “Io non sono antisemita, sono anti-israeliano”. È una frase che non vuole dire niente. È chiaro che Israele essendo uno Stato ha una vita politica e dei partiti che non necessariamente piacciono a tutti e neppure si piacciono tra di loro. Le frasi che in sé non vogliono dire niente possono diventare slogan micidiali: “sono anti-israeliano” è un’espressione che o non vuol dire niente o indica un pregiudizio che può essere fattore di atrocità. Da una parte non vuol dir niente: si può criticare l’uno o l’altro partito politico di un Paese, senza che ciò implichi alcun pregiudizio nei confronti del Paese stesso; io, ad esempio, ho sempre criticato duramente i vari governi Berlusconi, posso avere ragione o torto in questi giudizi, ma non sono certo anti-italiano e questo vale per ogni Paese. Anche per quel riguarda Israele, c’è chi votò più volentieri Begin e chi votò più volentieri Rabin. Ma se col pretesto del rifiuto della politica di un determinato governo si insinua il rifiuto complessivo dello Stato, del Paese governato in quel momento dal tale partito, questo è un atteggiamento inaccettabile, che implica certamente pure antisemitismo, consapevole o no. Guai a considerare antisemita ogni critica, giusta o no, di uno o dell’altro governo israeliano, ma anche guai a contrabbandare con questa critica elementi, anche solo sottintesi e dissimulati, di antisemitismo. Per quel che riguarda la straordinaria importanza che ha avuto e ha per me l’ebraismo e la sua cultura, potrei citare tanti episodi. Ad esempio, una volta, mentre ad Eisenstadt stavo discutendo di letteratura ebraica con un rabbino di Vienna, a un certo punto lui mi chiese: «Ma lei non è ebreo vero?». «No», risposi io. «Era solo una domanda», ribadì lui, allargando le braccia come per rassicurarmi.