di Ilaria Ester Ramazzotti
Iniziamo da questo numero la pubblicazione di una serie di interviste agli anziani della nostra Comunità, per raccogliere la loro memoria storica, prezioso insegnamento. Zipora Kashani Loulai è il simbolo della diaspora persiana-mashadì, approdata a Milano negli anni Sessanta dopo incredibili vicissitudini. Mashad, Teheran, Israele… dal ghetto alla libertà
“A Mashad abbiamo case enormi. La parte che dà sulla strada ha l’aspetto di una fortezza, muri senza finestre attaccati uno all’altro come in un alveare. Questo è il nostro ghetto: un enorme agglomerato di muri e recinzioni”. Emerge indelebile, nelle parole e nel romanzo autobiografico di Zipora Kashani, il ricordo della sua casa e del quartiere ebraico a Mashad, nel nord-est dell’Iran. Insieme alle sue parole prendono luce l’amore per la famiglia, per la comunità e per le tradizioni degli ebrei persiani, vive e gioiose nonostante tutto. “Il mio bicchiere l’ho sempre visto mezzo pieno, mai mezzo vuoto”, sottolinea la signora Zipora, che ci ha calorosamente accolto e ospitato nella sua casa milanese per raccontarci un po’ della sua storia e degli ebrei di Mashad.
Documenti, libri e fotografie ci parlano di una comunità attaccata alle proprie radici, costretta a una difesa ferrea e ingegnosa della propria identità, saldamente preservata e tramandata di generazione in generazione. Riemergono le luci di una terra lontana e ostile, la calura di stagioni passate, la freschezza delle vie ebraiche di Mashad in inverno, fra profumi di spezie, di pietanze prelibate, del vino per il kiddush prodotto di nascosto perché era proibito, fra voci di ragazzi, di famiglie numerose, di feste e di preghiere. “All’interno del ghetto ci sono aperture e passaggi segreti e si può raggiungere qualsiasi casa e qualsiasi famiglia. Si può girare per settimane, senza uscire in strada – prosegue la signora Zipora -. Dentro il ghetto, le case sono piene di vita e risuonano della confusione dei bambini. Intorno al cortile interno abbiamo finestre, terrazze e scale. In mezzo al cortile c’è una piccola vasca, contornata da alberi da frutto che profumano nella stagione della fioritura, per riposarsi all’ombra e fumare il narghile. Intorno alla vasca, panchine. Nelle case, tutti hanno una cantina dove si conservano il cibo e il vino”. “L’odore di umidità che si sparge nell’aria entra nelle narici e ti riempie di un’aria invernale”.
IL “MARRANESIMO” PERSIANO
Tornano alla mente quelle grandi famiglie, fatte di genitori, di padri e mariti che viaggiano per lavorare e commerciare fra il Turkmenistan, l’Afghanistan, l’Uzbekistan, di nonni, fratelli, sorelle, cugini e vicini di casa con cui ci si fidanza giovanissime, per allontanare i pretendenti musulmani. A quei tempi, si promettevano in matrimonio bambine piccole per evitare che da grandi venissero portate via e prese in moglie fuori dalla comunità. Fuori, in una terra inospitale che aveva costretto quelle famiglie a una sorta di “marranesimo”, al mascheramento della propria identità mantenuta in segreto. C’era persino un dialetto locale condito d’ebraico, il Mashhadighì. “Lashon lo! – ci spiega Zipora – significa ‘non parlare, chiudi la bocca’, e si diceva quando non era prudente essere ascoltati”.
GLI ANNI A MASHAD...
Zipora Kashani nasce nel 1942 e cresce immersa nelle tradizioni ebraiche e nell’ostilità del mondo circostante, prima a Mashad e poi a Teheran. Ha un nome persiano, Nahid, e uno ebraico, Zipora. “Anche i matrimoni in quegli anni si simulavano con il rito shiita e poi, di nascosto, nelle cantine, si celebravano col rito ebraico”. Ci mostra le fotografie di documenti matrimoniali scritti in persiano e dell’equivalente ketubà in ebraico. Tutto ebbe origine in un passato non lontano, per l’antica comunità degli ebrei iraniani. A Mashad gli ebrei ci abitavano dal Settecento, quando il conquistatore sunnita Nader Scià li fece arrivare da Qazvin, vicino al Mar Caspio, per supportarlo nel governo di una zona shiita. Così la comunità ebraica di Mashad cominciò a prosperare, insieme ai ricchi commerci della città. Ma non tardò ad arrivare un giro di boa. Un pogrom, nel 1839, causò quaranta vittime e costrinse la comunità a convertirsi forzatamente all’islam. Erano i terribili giorni dell’Allahdad (“il dono di Allah”), giorni che spinsero gli ebrei a vivere da jadidim anche sotto il regno meno ostile dello scià Reza Khan Pahlavi, negli anni Venti: si esternava l’islam quale religione ufficiale e si praticava l’ebraismo in segretezza. Una vita fittizia e un’altra nascosta si intrecciavano e scorrevano su due binari fra difficoltà e paure. “I pericoli maggiori spesso si evitavano pagando gli imam”.
Una nuova drammatica sfida sarebbe arrivata negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, con l’arrivo della propaganda nazista. “Lo scià Reza Pahlavi non era un musulmano sciita, ma sunnita, quindi non odiava gli appartenenti alle altre religioni. In compenso collaborava con i nazisti perché era fiero dell’appartenenza dei persiani alla ‘razza ariana’ (da cui il nome Iran), così consegnò le liste degli ebrei di Persia ai nazisti. Fra i nomi segnati in questa lista c’ero anche io, benché molto piccola e formalmente islamica”. Nel 1946 accade l’ultimo pogrom di Mashad, “ma non ci furono vittime perché avevano pagato in oro gli imam”. Da quell’anno iniziò l’emigrazione degli ebrei verso Teheran, Eretz Israel e l’America.
… E QUELLI A TEHERAN
A Teheran, dove parecchi ebrei mashadì si erano trasferiti anche perché la nascita dell’Unione Sovietica impedì i commerci con il Turkmenistan, Zipora abitava in un quartiere con famiglie ebraiche, bahai, zoroastriane e armene. Non era facile vivere come donne, di qualunque etnia o religione si facesse parte.
Ricorda di avere subito due tentativi di rapimento, il primo da parte di una coppia senza figli, il secondo per la strada, per conto di un uomo potente. “Prendevano donne, ragazzine, bambini; una volta abbiamo assistito al rapimento di una ragazzina. Che vita avrei avuto? Sarei finita dentro a un harem”.
Libera, studiosa e intraprendente, a Teheran Zipora si iscrive a una scuola di lingue che poi non era altro che l’Agenzia Ebraica. Studia l’ebraico, impara i balli popolari e apprende nozioni di sionismo.
DA ISRAELE A MILANO
Negli anni Cinquanta emigra finalmente in Israele, dove raggiunge l’amata sorella, si iscrive a scuola, vive in un Paese libero anche per le donne. Una tappa e una svolta di vita per lei cruciali. In Eretz, incontra Moshè Loulai, presentatole da un suo cugino, e lo sposa nel 1960, a 18 anni. Negli anni Sessanta, insieme a suo marito, approda a Milano. Una città generosa di opportunità e di commerci, ma anche luogo di una comunità ebraica fatta di tante tradizioni. L’impatto con mondi nuovi non è semplice. “In Israele era diverso, invece qui ho ritrovato gli usi della nostra diaspora. Le donne in casa, separate dagli uomini, e solo gli uomini lavoravano. Anche io volevo lavorare, potevo insegnare l’ebraico, ma non si usava”. Poi la famiglia cresce, i figli nascono e l’integrazione con la comunità locale e cittadina passa anche attraverso la scuola ebraica di via Sally Mayer. La nascita del centro Noam scrive un’altra pagina importante della sua storia. Negli anni Ottanta risiedevano a Milano circa 1600 ebrei di origine mashadì, in parte successivamente emigrati altrove a causa della crisi economica. Oggi sono meno della metà.
L’antica comunità ebraica iraniana di Mashad, da cui le ultime famiglie ebraiche partirono nel 1960, rivive attualmente in diverse parti del mondo: Israele, New York, Londra. Eppure ci torna in mente il racconto di quei vecchi muri, di quei profumi, di quelle voci. Il dialogo con Zipora ci trasmette, insieme ai quei ricordi, uno straordinario senso della famiglia e delle proprie radici, ma anche un eccezionale senso della comunità, dell’ospitalità e dell’amicizia.
“Abbiamo scupolosamente ricevuto e tramandato le nostre tradizioni”, sottolinea. Anche “qui ho conosciuto tante altre buone persone, che ho accolto volentieri” in casa, in famiglia, fra figli e nipoti, nelle festività e fra gli amici. All’inizio non era stato tutto facile. Poi cambiano i tempi, variano le situazioni e nella vita “sono stata un po’ straniera in ogni luogo. Ma il mio bicchiere è sempre mezzo pieno”.