di Claudio Vercelli
Dispersione, sradicamento, nostalgia. Eppure l’identità diasporica è stata anche sintonia, creatività, desiderio di esplorare il mondo, non solo passività o antagonismo con l’idea sionista. Oggi più che mai tra Israele e Diaspora c’è un rapporto complesso, dialettico, vitale
Popolo del Libro, ma anche popolo della dispersione, gli ebrei, con il Novecento, sono tornati a essere anche una Nazione: il popolo israeliano. Nella visione sionista tale esito storico è la definitiva ricomposizione politica dei tasselli di un mosaico preesistente, quello diasporico, all’interno di una coerenza di significati che coincide con l’interezza della storia ebraica medesima. Lo Stato degli ebrei deve esistere poiché è l’intera parabola dell’esistenza e della sopravvivenza degli ebrei a testimoniarne della sua inoppugnabile necessità. L’imperativo ebraico nei confronti dello spazio è peraltro diverso da quello cristiano e islamico. Se nel caso delle altre religioni monoteiste conta il processo diffusivo, l’espansione verso orizzonti potenzialmente senza confine, per l’ebraismo, invece, è fondamentale ritornare all’origine, ossia ad un luogo, geografico e simbolico allo stesso tempo, dove possa celebrarsi la ricomposizione.
Tutta la letteratura ebraica si connota quindi per la nostalgia di una perdita. La terra che non c’è più, ma che potrebbe tornare ad esserci, è allora il prodotto di una «promessa», vigorosamente recuperata dal sionismo in un programma politico e poi tradotta in fatti concreti. Mai come in questo caso l’afflizione per un “qualcosa” di venuto a mancare ha saputo mantenere i tratti di una rivendicazione persistente, disegnando e rinnovando i confini di una identità che ha attraversato le epoche storiche. Da ciò, come anche dal superamento della frammentazione attraverso la realizzazione di una reale comunità politica, è quindi derivato non solo lo Stato d’Israele ma anche il conseguente rapporto con la Diaspora. Ed è allora importante capirsi sulle parole. Benché utilizzati come sinonimi, ossia immediati equivalenti, i concetti di «dispersione» (Tefuzot) e di «esilio» (Galut) contrassegnano invece esperienze tra di loro diverse. Nel primo caso ci si rifà ad una somma di eventi la cui natura può essere anche volontaria. Si è cittadini di altri paesi senza che a ciò sia legata una qualche menomazione o mancanza. Per similitudine, è da considerarsi diasporico l’insieme delle comunità esistenti a tutt’oggi al di fuori dello Stato d’Israele. La storia ebraica, infatti, conosce una linea di fenditura con la distruzione del Secondo Tempio nel 70 dell’era volgare, per mano delle legioni romane, comandate da Tito, nella prima guerra giudaica.
Il termine Galut, invece, incorpora la concezione di una nazione sradicata dalla sua terra d’origine e assoggettata alla volontà straniera. Come tale, oltre a circoscrivere un’epoca storica caratterizzata dalla dipendenza e dalla subalternità, identifica anche la natura idealizzata della coscienza di sé, basata sulla perdita dello Stato e, in immediata conseguenza, sugli sforzi per ricostruirlo. Dopo di che, nei fatti concreti, i processi che si accompagnano alla presenza ebraica nel mondo sono dovuti alla combinazione di una pluralità di fattori, che spesso si alimentano vicendevolmente. Da una parte si pongono eventi catastrofici, legati alle disfatte militari, alla consunzione delle proprie istituzioni politiche, alle distruzioni e alle persecuzioni; dall’altro il flusso che si accompagna all’emigrazione verso nuovi territori, nel tentativo di migliorare le propria condizione socio-economica, esplorare il mondo, confrontarsi con situazioni inedite.
Una ribellione contro il destino
L’esperienza sionista ha cercato di andare oltre questo stato di cose. Il ritorno a Sion, quindi, si pone, al medesimo tempo, in linea di continuità ma anche di discontinuità rispetto al passato ebraico. La continuità sta nel presupposto di tornare ad una fondazione territoriale: già c’era nel lontano passato ed essa si riafferma, sul piano storico, nel momento della costruzione degli Stati nazionali negli spazi mediterranei e africani a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Lo Stato d’Israele ne costituisce il definitivo coronamento. La discontinuità sta nella costruzione e nella condivisione di un’idea di ebreo contrapposta alle immagini tradizionalmente radicate nella Diaspora. Per il sionismo, infatti, si tratta di dare corpo all’ebreo costruttore del suo stesso destino, senza il quale nessun percorso di concreta ricomposizione e nazionalizzazione del Popolo d’Israele risulta possibile. Un ebreo attivo, inserito nella vita attiva, fortemente partecipe dei processi politici, con un’identità molto marcata, e che come tale intende «uscire dal ghetto» una volta per sempre.
Il rischio, infatti, era che i particolarismi che si erano affermati nelle comunità ebraiche nel mondo, avessero la meglio su un percorso che, nelle intenzioni, doveva invece portare alla riunificazione collettiva.
Affermava ancora nel 1944 David Ben Gurion: «la nostra rivoluzione è rivolta non solo contro un sistema, ma contro il destino, il destino singolare di un popolo singolare». Si trattava ora di divenire un “popolo normale”, tale soprattutto perché dotato di una sua sovranità territoriale. Una Nazione tra le nazioni. La costituzione dello Stato d’Israele, l’organizzazione politica collettiva che completa questo processo storico, ha quindi segnato in campo ebraico una cesura storica nella percezione di sé, contribuendo a rigenerare le coordinate dell’identità collettiva.
Il sionismo ha assunto molti aspetti dalla tradizione ebraica ma ne ha fatto anche una rilettura selettiva, orientata soprattutto ad accreditare la validità del suo progetto. Veniva infatti tralasciata, o comunque sottostimata se non rifiutata, la diaspora medievale mentre l’autentica storia ebraica era fatta coincidere con l’epoca della sovranità statale, anteriore alla distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme. L’esilio diventa quindi una sorta di epoca senza storia, sia per la mancanza di uno Stato ebraico indipendente, sia per la debolezza e la compiacenza che avrebbe connotato una parte del mondo ebraico rispetto ai padroni di turno. Ancora David Ben Gurion: «Galut significa dipendenza – materiale, politica, spirituale, culturale e intellettuale – perché siamo stranieri, una minoranza priva di patria, senza radici, staccata dalla terra, dal lavoro dei campi e dall’attività industriale. Il nostro compito è ora troncare questa dipendenza e diventare padroni del nostro destino». Il modello israeliano diventa allora quello del kibbutz galuyyot, dell’amalgama tra comunità preesistenti. Sintesi delle medesime, in quanto ritorno alla casa primigenia, in Eretz Israel, ma anche loro superamento, in quanto la fondazione dello Stato d’Israele, Medinat Israel, risponderebbe alla necessità di “normalizzare” la condizione degli ebrei moderni, facendoli maggioranza all’interno di un territorio sul quale esercitare la piena giurisdizione e costruire una propria cittadinanza.
Diventare un popolo normale
Se la dispersione, per il sionismo, è quindi il segno di una minorità, quella che deriva dall’avere perso il proprio ancoraggio territoriale, il diventare israeliani costituisce invece il suo superamento. A lungo, quindi, il rapporto tra Israele e Diaspora si è nutrito di una vivace ambivalenza.
Il primo, in alcuni casi, ha mosso alla seconda l’accusa di anacronismo e di dipendenza. Il progetto israeliano, combattivo e determinato, supererebbe la mera logica della sopravvivenza, sostituendovi un nuovo orizzonte, fondato sull’attivismo della rivendicazione e la volontà di autoaffermazione. Non di meno, spesso a questo attivismo sionista, e poi israeliano, è stata contrapposta l’immagine di un ebreo diasporico rimasto fatalista e passivo, disposto a scendere a molti compromessi pur di garantirsi una sorta di quieto vivere. In realtà molte di queste raffigurazioni costituiscono dei cliché, per buona parte consumatisi ed esauritisi nel corso del tempo. Ma sono serviti a marcare i passaggi della costruzione di nuove identità, sia in Eretz Israel che nella stessa Diaspora. Ne è derivato che il pensare a se stessi in chiave esclusivista, credendo che l’una parte possa riassorbire per sempre l’altra, non solo è storicamente infondato ma non ha nessun riscontro storico. Sia la condizione diasporica che l’idea ebraica di nazione hanno infatti costituito due paradigmi moderni ai quali anche altri movimenti e gruppi si sono ispirati nel Novecento.
Il vero punto nodale è comunque dato dal riconoscersi come parte di una comunità che deve ricomporsi ma non per questo unificarsi. Di fatto la Diaspora ha significato circolazione: di persone, di idee, di esperienze. All’interno di questo campo di trasformazioni ha coltivato la memoria come principale tratto identitario; la coesione e la solidarietà interne al gruppo; la propensione a coltivare rapporti tra pari; la presenza preponderante in alcuni segmenti del mercato del lavoro; la specializzazione culturale all’interno della società ospite; il ricorso ad una letteratura dell’esilio che alimenta i tratti identitari preesistenti e, in parte, li trasforma. Il sionismo è cresciuto non malgrado questi elementi ma grazie ad essi, costituendo il punto di confluenza tra le identità diasporiche e il loro incontro con la modernità. Per questo Israele e Diaspora si tengono insieme, per mano. Due corpi che si incontrano e si coniugano ogni giorno.