Nazismo al femminile: Irma Grese e le altre. “Kinder, Küche, Kirche”

Personaggi e Storie

di Francesco Cappellani

In un discorso all’organizzazione delle donne nazionalsocialiste dell’8 settembre 1934, Adolf Hitler aveva puntualizzato che il mondo femminile doveva risultare distinto da quello maschile, e riguardare essenzialmente “il marito, la famiglia, i figli e la casa”. Nella propaganda nazista il ruolo della donna si riassumeva nello slogan delle tre kappa: “Kinder, Küche, Kirche”, cioè, in modo sintetico, “figli, cucina, chiesa”.  A questo scopo nel 1930 era stata fondata la Lega delle Ragazze Tedesche (BdM: Bund Deutscher Mädel) come ala femminile della Hitlerjugend, la gioventù Hitleriana,  che mirava, seguendo un opportuno programma educativo,  a forgiare il fisico e le menti delle giovani  per divenire e comportarsi da perfette donne nazionalsocialiste insistendo sulla superiorità della razza e sull’antisemitismo. Dal 1936, chiusa ogni altra organizzazione giovanile, l’iscrizione alla BdM divenne obbligatoria per tutte le ragazze ariane di provata discendenza etnica e razziale germanica ed esenti da malattie ereditarie, dai 10 ai 18 anni. Nel corso dei “campi educativi” creati ad hoc, veniva martellato il concetto di “Blut und Boden” (Sangue e Terra) caro a Hitler che vedeva nelle vita rurale i valori sani e leali della vita in contrapposizione alle professioni cittadine di stampo giudaico.

Durante il secondo conflitto mondiale molte di queste giovani donne, indottrinate all’ideologia nazista mediante un assiduo lavaggio del cervello, parteciparono alle operazioni di guerra senza però combattere al fronte, ma dedicandosi ad attività di assistenza dei feriti, di segretariato, di operatrici radio e telegrafo, di supporto per lo smistamento ed il monitoraggio di viveri e munizioni per il rifornimento delle prime linee e, dopo il 1943, quando i soldati tedeschi erano per la gran parte al fronte, di servizio nella FLAK (FlugabwehrKanone), la difesa contraerea.

Con la conquista da parte delle truppe Hitleriane di territori sempre più vasti in Polonia, Ukraina e in Russia, mezzo milione di donne si unirono all’esercito partecipando al processo di “germanizzazione” di quei paesi, anche come esaminatrici razziali, propagandiste del credo nazista ed insegnanti di tedesco. Esse divennero, forse inconsapevolmente, un ingranaggio importante della macchina di sterminio nazista, e quindi in molti casi complici del genocidio. Occorre ricordare che le donne non erano ammesse nel corpo delle SS per cui, dato che nel sistema penitenziario tedesco le donne recluse dovevano essere vigilate da donne, queste erano “appaltate” dalle SS per lavorare come guardie nei vari lager. Qui per molte di esse avvenne un processo di “disumanizzazione” che fu subito rimosso a guerra finita.

Circa 3.550, tutte di giovane età, vennero addestrate nel campo femminile di Ravensbrück durante gli anni della guerra a partire dal 1939 e poi inviate nei vari campi; ad Auschwitz ed Auschwitz-Birkenau da marzo 1942, a Stutthof, a circa 35 km da Danzica, ed infine a Bergen-Belsen all’inizio del 1945. Molto meno numerose degli uomini, ad esempio nel complesso concentrazionario di Auschwitz a fronte di parecchie migliaia di SS-Totenkopf (Testa di Morto) non vi furono mai più di duecento donne; esse furono impiegate come guardie e supervisori dei campi di concentramento soprattutto a oriente, divenendo in prima persona attrici dirette del processo di annientamento di tutti coloro, ebrei, zingari, infermi etc. che erano considerati, nel delirio nazista sulla pulizia etnica e la purità della razza, “untermenschen”, sub-umani. I casi di feroce e spietata crudeltà sicuramente documentati non sono molti, ma quello che è apparso nel corso dei pochi processi relativi alle sorveglianti dei lager, è stata da un lato il loro comportamento sadico e brutale nei confronti dei detenuti spesso peggiore di quello esercitato dalle SS, dall’altro la ferma convinzione di avere agito con leale correttezza nell’ambito della fedeltà ai precetti del nazionalsocialismo ed al rispetto degli ordini ricevuti. L’olocausto viene normalmente presentato come un crimine perpetrato soltanto dagli uomini delle SS, mentre il contributo delle donne, senz’altro secondario ma non meno feroce e disumano, è stato ignorato salvo, come vedremo, rarissime eccezioni venute alla luce in gran parte dopo la caduta della Cortina di ferro grazie alla possibilità di consultare gli archivi di guerra russi e dei paesi dell’est. Ad esempio al primo processo di Norimberga, gestito da una Corte di Giustizia internazionale, non c’era nessuna donna tra gli imputati, mentre nei dodici processi di Norimberga successivi, con un tribunale sotto giurisdizione solo americana, le donne incriminate furono due rispetto a centinaia di accusati per reati connessi al programma di “purificazione” razziale.

Una delle due donne fu assolta, l’altra, il medico Herta Oberheuser, fu giudicata colpevole e condannata per crimini di guerra e contro l’umanità nel cosiddetto “Processo dei medici” che ebbe luogo a Norimberga dal 9 dicembre del 1946 al 20 agosto 1947. Dei 23 medici imputati, sette furono assolti, sette condannati a morte e gli altri condannati a pene detentive variabili tra 10 anni e l’ergastolo. Herta Oberheuser, soprannominata dalle prigioniere “der Teufel mit der Engelgesicht” (il diavolo con la faccia d’angelo) per il suo piacevole aspetto, aveva collaborato col Dr. Karl Gebhardt, medico personale di Himmler, nel campo femminile di Ravensbrück inaugurato nel 1939, a raccapriccianti esperimenti medici su 86 detenute soprattutto polacche per studiare, mediante devastanti interventi chirurgici, la rigenerazione dei tessuti muscolari e delle ossa e del trapianto di ossa da una persona all’altra. Le donne operate, dopo degenze dolorosissime, restavano mutilate e con una disabilità permanente. La Oberheuser fu accusata anche di avere praticato volontariamente incisioni sulle “cavie” umane nelle quali introduceva batteri nocivi (stafilococchi, streptococchi) e chiodi, schegge di vetro, pezzi di legno, fango, per  causare infezioni, cancrene e putrefazioni. Lo scopo era di simulare gli effetti delle ferite riportate dai soldati tedeschi in battaglia per studiarne le possibilità di guarigione con l’uso di sulfanilamide in funzione antibiotica. Gebhardt fu condannato a morte mentre a Herta Oberheuser furono inflitti 20 anni di carcere ma, nel 1952, fu rilasciata per buona condotta. In realtà il rilascio fu dovuto al cambio di strategia di Washington nei confronti della Germania Ovest che doveva costituire un argine al potere sovietico nell’ambito della “guerra fredda”. Per gli U.S.A. era quindi opportuno chiudere il discorso dei crimini contro l’umanità, ed in effetti parecchi medici dal dubbio passato furono liberati e segretamente trasferiti in America dove furono impiegati per ricerche nella medicina spaziale. La Oberheuser beneficiò di questa politica, ebbe una generosa sovvenzione per le sue “sofferenze”, e riprese la professione come pediatra nel comune di Stocksee. Riconosciuta nel 1956 da alcuni sopravvissuti di Ravensbrück, perse il posto e due anni dopo le fu tolta la licenza di esercizio della sua attività e le fu revocata la laurea in medicina. La riottenne dopo numerosi ricorsi nel 1961 ma non poté  più esercitare. Morirà in una casa per anziani a 67 anni nel 1978.

Maria Mandel fu una delle donne naziste che ricoprì uno dei più alti ruoli di comando nella gerarchia del lager come Lagerführerin (capolager) nel campo femminile di Birkenau. La Mandel, pur non avendo per regolamento nessuna autorità sulle SS, aveva potere assolute sulle sue sottoposte e sulle prigioniere, e rispondeva soltanto al direttore del campo, il famigerato SS-Kommandant Rudolf Hoess. Arrestata il 10 agosto 1945 dalle truppe americane fu poi consegnata alla Repubblica Polacca nel novembre 1946, giudicata un anno dopo nel grande processo di Cracovia sui crimini perpetrati ad Auschwitz e condannata a morte per impiccagione. La sentenza fu eseguita il 24 gennaio 1948; aveva 36 anni. Una testimone polacca, sopravvissuta al lager ma incarcerata poco dopo dal governo polacco come attivista anticomunista, che divideva la cella con la Mandel, raccontò che prima dell’esecuzione la Lagerführerin le chiese di perdonarla a nome di tutte le donne e bambini, stimate in circa 500.000 persone, che lei aveva selezionato per andare a morire nelle camere a gas.

Quando le truppe inglesi entrarono nel campo di Bergen-Belsen il 15 aprile 1945 arrestarono una settantina fra uomini delle SS, donne e Kapò (supervisori) nazisti per la gran parte provenienti dal lager di Auschwitz, dopo l’evacuazione di questo campo per l’avanzata dell’Armata Rossa.  Il processo ebbe luogo a Lüneburg dal 17 settembre al 17 novembre 1945 con 45 imputati di cui 16 donne. Questi processi, a differenza di quello di Norimberga, non furono soggetti ad una Corte internazionale, ma vennero condotti in accordo con la legislazione del paese a cui apparteneva l’esercito che aveva liberato quella porzione di territorio dove erano avvenuti gli arresti. Ad esempio nel caso del processo relativo al lager di Bergen-Belsen il tribunale giudicante fu  quello militare inglese.

Tra le donne giustiziate forse il caso più emblematico dell’aberrazione di ogni sentimento umano tra le donne deputate alla sorveglianza, è quello di Irma Grese, la più giovane dei condannati. Irma era nata a Wrechen il 7 ottobre 1923 terza di cinque figli. Nel 1936 la madre si era suicidata ingerendo dell’acido cloridrico dopo avere scoperto che il marito la tradiva; questo terribile episodio influenzerà pesantemente sul carattere e forse anche sui comportamenti successivi della ragazza allora tredicenne. Il padre si era iscritto al partito nazista nel 1937 ma non era un fervente attivista. Irma lasciò gli studi a 14 anni dopo avere dimostrato uno scarso rendimento scolastico e si iscrisse, contro il parere paterno, alla BdM assimilando entusiasticamente l’ideologia nazista. Fece vari lavori saltuari tra i quali quello di aiuto infermiera in un sanatorio per le SS per due anni ed in seguito, dopo avere tentato invano di diplomarsi come infermiera, a 18 anni si iscrisse ai corsi di addestramento come ausiliaria femminile delle SS  tenuti presso il campo di Ravensbrück. Qui conseguì dei risultati così brillanti, grazie all’impegno ed alla devozione dimostrata alla causa nazista, da essere nominata a metà anno 1942 Ausfeherin (guardia) a Ravensbrück, il campo dove veniva applicata la teoria dello “Sterminio mediante il lavoro” (Vernichtung durch Arbeit), e nel marzo 1943 trasferita ad Auschwitz-Birkenau dove, nel maggio del 1944, a 21 anni, fu promossa Rapportführerin, il secondo gradino più alto nella gerarchia di comando femminile dei lager. Era responsabile di 30.000 donne prigioniere nel sottocampo B-II/C a Birkenau.

In questa posizione presiedeva insieme al dottor Josef Mengele alla selezione degli internati per le camere a gas. Nel gennaio del 1945, a seguito dello sgombero del campo di Auschwitz e dei suoi 45 campi satelliti per l’approssimarsi dell’armata rossa, la Grese fu trasferita nel lager di Bergen-Belsen che nel 1944 era stato dotato di una sezione femminile dove, nel 1945, perirono Anna Frank e la sorella Margot. Si stima che a Bergen-Belsen siano morte oltre 50.000 persone soprattutto per tifo, tubercolosi, dissenteria e malnutrizione, e circa 20.000 prigionieri di guerra russi. Prima di scappare le SS distrussero tutti i registri del campo per cui il numero esatto delle vittime e come morirono rimarrà per sempre ignoto. Quando l’undicesima divisione corazzata dell’esercito britannico entrò nel campo furono trovati 13.000 cadaveri e 60.000 sopravvissuti, tutti in condizioni estremamente critiche; 14.000 moriranno poco dopo la liberazione. Irma Grese, il capo del lager Josef Kramer, sedici SS, 16 guardiane e 12 Kapo furono catturati dagli inglesi e portati a processo nella cittadina di Lüneburg, dove Bach aveva vissuto qualche anno, e dove pochi mesi prima Heinrich Himmler si era suicidato. Dei 45 imputati undici, tre donne e otto uomini, furono condannati a morte per impiccagione per crimini di guerra, senza possibilità di appello. Il personaggio più inquietante fra gli accusati fu proprio Irma Grese, soprannominata la “Iena di Auschwitz” (die Hyäne von Auschwitz) o “Cagna di Auschwitz”, ma anche “ Bella Bestia” per la sua avvenenza e  la sua crudeltà e depravazione. La descrizione da parte dei testimoni delle sadiche atrocità che infliggeva ai prigionieri lascia increduli su come una bella e giovanissima donna abbia potuto comportarsi in un modo così amorale e disumano. Una delle torture che preferiva praticare, consisteva nel ferire i seni delle recluse per causare infezioni che spesso si risolvevano con l’asportazione del seno senza anestesia alla quale assisteva godendo di una sorta di eccitazione sessuale.  Tormentava psicologicamente e fisicamente i prigionieri con ogni genere di sevizie ed abusava sessualmente degli internati di ambo i sessi e di qualsiasi razza arrivando a stuprare alcune ragazze; rimasta incinta, costrinse un prigioniero medico a provocarle l’aborto, illegale in quanto vietato dal codice nazista; faceva digiunare i cani per giorni in modo che fossero più feroci nell’assalire e sbranare i prigionieri.

Provava un piacere morboso a vedere la gente soffrire e sentire il terrore che le detenute provavano nella sala di chiamata per le camere a gas dove la Grese sceglieva non solo le donne deboli e malate ma anche quelle che avevano ancora una parvenza di bellezza. Secondo il racconto di alcuni internati, aveva sparato a sangue freddo contro numerosi detenuti uccidendoli, e picchiato con fruste, calci e pietre a morte alcune donne. Durante i due mesi del processo Irma rispose, come risulta dalle minute dell’istruttoria, ammettendo ad esempio che “Dopo che la selezione era finita /…/ gli internati prescelti andavano in un altro campo in Germania per motivi di lavoro o per trattamenti speciali S.B. (Sonder Behandlung) /…/. Nel campo era ben noto a tutti che S.B. significava camera a gas”. Rispondeva in genere a monosillabi, in modo cinico e spesso insolente; ad esempio alla domanda dell’accusa sul fatto che le persone da selezionare erano nude e venivano trattate come fossero bestiame, aveva specificato seccamente “Non come bestiame”, e richiesta di raccontare se li bastonasse con violenza sulla schiena qualora non mantenessero la fila aveva detto senza esitazione “”. Durante tutto il processo la Grese fu seguita attentamente in ogni atto od espressione ed appariva, secondo le descrizioni, più come una modella della buona società che una persona accusata di efferate torture e di perversi appetiti sessuali. Fu vista ridere in modo irrefrenabile solo una volta, quando la moglie di Josef Kramer, il capo di Bergen-Belsen, testimoniò che suo marito era angosciato dagli ordini, come quello di gassare delle persone innocenti, che gli venivano impartiti dagli alti comandi nazisti. Pianse quando vide suo fratello Otto nella saletta dei testimoni e quando la sorella più giovane Helena raccontò della quieta indole di Irma nella sua giovinezza. La sentenza di condanna all’impiccagione come criminale di guerra,  stabilì che gli atti criminali a lei ascritti erano dipesi dalla sua propria volontà, il che provava che non aveva sempre eseguito ciecamente ordini dei superiori, ma che molti atti di violenza li aveva commessi decidendo di compierli per scelta personale. Irma ascoltò impassibile il verdetto, ma appena uscita dall’aula scoppiò in singhiozzi. Nel racconto del maggiore inglese G.I.Draper che faceva parte del collegio giudicante , dopo il responso della corte la Grese era distrutta, non tormentava più i suoi bei boccoli biondi, e con gli occhi arrossati iniziò a piangere perdutamente. Il suo successivo appello fu respinto. La notte prima dell’esecuzione Irma cantò inni nazisti insieme alla sua compagna di cella Joanna Bormann anche lei condannata a morte. L’impiccagione avvenne il 13 dicembre 1945 nella prigione di Hamelin per mano del noto boia-capo (Chief Executioner) britannico Albert Pierrepont. Nelle sue memorie Pierrepont ricorda che Irma era “as bonny a girl as one could ever wish to meet” (una ragazza così gradevole come ognuno potrebbe sperare di incontrare). Alle 9.34 del mattino la Grese fu condotta al patibolo, fissò per un attimo gli addetti che le stavano attorno, quindi si portò al centro del coperchio della botola “and as I placed the white cap over her head she said in her languid voice “Schnell”” (e quando le infilai il cappuccio bianco sulla testa, lei mi disse con la sua voce languida “Presto”). Aveva 22 anni.

Il caso di Ilse Koch, nata Ilse Kohler, nota come la “donnaccia di Buchenwald” (Buchenwälder Schlampe) è il più noto fin dal dopoguerra, e sarà qui solo accennato. Ilse, nata nel 1906 a Dresda, simpatizzò fin dagli inizi col partito nazista divenendo segretaria di Heinrich Himmler, il Reichsführer delle SS. Nel 1936 sposò Karl Koch, ufficiale delle SS, che nel 1939 fu nominato comandante del campo di concentramento di Buchenwald dove si trasferì  con la moglie. Insieme instaurarono nel campo un regime di terrore e crudeltà macchiandosi dei più efferati delitti al punto che le stesse autorità naziste li accusarono di eccessiva  brutalità nelle sevizie, di comportamenti immorali, di malversazione e corruzione. Riuscirono ad evitare la condanna ma nel 1944 Karl Koch, accusato nuovamente di furto ed attività illecite, fu fucilato dalle SS nell’aprile del 1945. Quando i soldati alleati entrarono nel campo di Buchenwald, Ilse si era già allontanata ma nel 1945 venne arrestata dagli americani e processata a Dachau nel 1947. Migliaia di sopravvissuti testimoniarono contro di lei, ma Ilse continuò a negare ogni addebito. La corte la condannò all’ergastolo ed ai lavori forzati. Nel 1951 fu rimessa in libertà dal comandante americano Lucius Clay ma le proteste furono tali che il processo venne riaperto da un tribunale tedesco e la condanna all’ergastolo venne riconfermata. La Koch si suicidò impiccandosi nel 1967 con alcune lenzuola annodate nel carcere di Aichach dove era rinchiusa.  Le testimonianze sugli amanti, le orge lesbiche, le torture indescrivibili inflitte ai prigionieri, la sua sfrenata lascivia e sadismo fanno della Koch uno degli esempi più efferati della realtà disumana dei lager nazisti. L’artista Woodie Guthrie ha scritto la canzone “Ilse Koch” sugli abusi da lei perpetrati a Buchenwald.

Particolare è il caso di Erna Petri, moglie di un ufficiale delle SS che era stato assegnato nel 1942, durante l’occupazione tedesca dell’Ucraina, a Lwòw (oggi Lviv) dove Erna si trasferì in una proprietà agricola adiacente. Nel 1943, rientrando verso casa da un giro di acquisti, scorse un gruppo di sei bambini di giovane età, circa tra i 6 ed i 12 anni, seminudi, laceri, spaventati e denutriti, accovacciati ai lati della strada, che erano sicuramente scappati da uno dei treni che trasportavano gli ebrei verso i lager. Li portò a casa sua, li rifocillò, e dopo li accompagnò in una fossa nel vicino boschetto, li mise in fila, e li uccise in successione con un colpo di pistola alla nuca. Fu solo nel 1962 che un tribunale della Germania Est la fece arrestare e processare. Alla domanda dell’accusa sulle molte testimonianze che confermavano che lei aveva sparato non solo a uomini ma anche a bambini di razza ebraica, riferendosi a questi ultimi, la Petri dichiarò “Ammetto che nell’estate del 1943, forse a settembre,  ho sparato con le mie mani, uccidendoli, contro sei bambini. /…./ Durante una conversazione tra mio marito e i suoi colleghi delle SS, avevo sentito che parlavano di come uccidere gli ebrei e raccontavano che il modo migliore era il colpo alla nuca, poiché le persone morivano immediatamente”. Ma più impressionante è la risposta che la Petri diede alla domanda “Perché ha freddato a bruciapelo  uomini e bambini ebrei?”. ”Quando ho sparato avevo soltanto 23 anni, ed ero giovane ed inesperta. Vivevo fra uomini che appartenevano alle SS e sparavano sugli ebrei /…/ Non volendo restare indietro rispetto a loro, volevo mostrare che io, una donna, potevo comportarmi come un uomo. Così uccisi quattro ebrei ed i sei bambini; volevo mettermi alla prova rispetto agli uomini”. In seguito ammise che aveva compiuto degli atti così brutali, lei madre di due bambini, perché fin da ragazza era stata talmente condizionata da quanto le era stato inculcato sull’ebraismo e la vitale necessità di eliminare gli ebrei, da arrivare a commettere quei terribili omicidi. Erna Petri fu condannata all’ergastolo ma dopo la riunificazione della Germania, chiese ed ottenne di essere rilasciata grazie probabilmente all’aiuto della “Stille Hilfe” (Aiuto Silente), una organizzazione delle ex-SS nata nel dopoguerra. Si trasferì in un villaggio della Baviera insieme a Gudrun Burwitz, la figlia di Himmler ed importante membro della Stille Hilfe, dove morì nel 2000.

Un altro aspetto della follia omicida del nazismo rivolta alla purificazione della razza fu l’eliminazione dei disabili mentali o con problemi psichici in quanto definite vite non meritevoli di essere vissute e pericolose per la degenerazione della razza ariana, oltre ad essere un costo importante ed inutile per la società. Nel quadro del programma di eutanasia forzata Aktion T4 furono eliminate oltre 70.000 persone “impure”, ma alcune stime parlano di quasi 200.000 persone considerando anche le morti avvenute dopo la chiusura del programma, e circa 375.000 furono sterilizzate in quanto affette da tare ereditarie o perché alcolisti cronici.

L’infermiera Pauline Kneissler fu una delle tante donne che praticarono l’eutanasia sugli handicappati mentali in apposite cliniche presentate come case di cura alle quali le famiglie ignare affidavano i loro congiunti inabili. L’eutanasia fu poi estesa, col proseguire della guerra, anche a quei soldati che al fronte avevano riportato gravi ferite e lesioni al cervello. La Kneissler Iniziò a lavorare all’inizio del 1940 nel centro per l’Eutanasia di Grafeneck, alloggiato nell’omonimo castello, dove nel 1940 furono eliminati 10.654 disabili ed ammalati mediante iniezioni letali e, in un secondo tempo, nelle camere a gas usando il monossido di carbonio. Il 13 dicembre 1940 le ultime vittime furono bruciate nel crematorio e l’attività fu interrotta per le proteste dei residenti nelle zone limitrofe. Il programma Aktion T4 proseguì a Hadamar, in Assia, da gennaio 1940 fino a fine luglio 1942 e la Kneissler continuò in quella sede la sua attività. Delle circa cento persone che lavorarono per il programma di eutanasia al castello di Grafeneck solo otto furono processate in quanto le altre non furono rintracciabili; le condanne emanate dal Tribunale di Tubinga nel dopoguerra variavano da otto mesi a cinque anni. Alla Kneissler fu comminata il 28 gennaio 1948 una pena di quattro anni per “crimini di eutanasia e collaborazione all’assassinio” per la sua provata complicità con la deviata classe medica nazista, ma dopo un anno fu rilasciata per mancanza di prove dirette dell’uccisione di almeno 500 persone di cui era accusata, e riprese la sua attività di infermiera pediatrica. La figura di Pauline Kneissler è stata rievocata e raccontata nel 2008 dall’attore Marco Paolini nel monologo teatrale dal titolo “Pauline” scritto dallo storico triestino Giovanni De Martis, una inesorabile riflessione su come l’uomo si accanisca contro i diversi.

Oltre ai milioni di esseri umani morti in condizioni atroci nell’universo concentrazionario nazista, anche chi è tornato da quell’inferno è rimasto segnato per sempre. Sono illuminanti in proposito le parole della scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz: “Vorrei, attraverso i miei libri, essere considerata una donna normale, qualsiasi, non un avanzo di vita, una sopravvissuta. Una volta tatuati, restiamo tatuati tutta la vita /…./ Da Auschwitz non torni mai, non sarai capito, né oggi, né ieri, né mai. Tu pensi che quando torni da questo luogo il mondo si inginocchierà e ti chiederà perdono. In realtà il mondo non ti vuole neppure, sei un sopravvissuto e non sanno cosa fare di te e nemmeno tu sai cosa fare della tua vita che hai salvato./…/ Questo è il mostro che porti dentro e non puoi liberartene”. (Tratto da “Judenrampe”, a cura di Anna Segre e Gloria Pavoncello. Elliot Edizioni, 2010).

 

 

 

(Francesco Cappellani, Dissensiediscordanze 16 marzo 2018)