di Davide Foa
100 anni dalla fine della Grande Guerra
Dal Risorgimento alla Grande Guerra: ebrei al fronte, alla ricerca di conferme. Emancipati dallo Statuto Albertino, vollero rivendicare, anche in divisa, il diritto di essere italiani a pieno titolo. Sperando di portare in trincea gli ideali ebraici. Divisi tra assimilazione, sionismo e amor di patria
Il capitano di artiglieria Giacomo Segre aveva poco più di 30 anni quando, nel settembre del 1870, ricevette l’ordine militare più importante della sua vita: aprire una breccia all’altezza di Porta Pia, nelle mura della città eterna. La storia del capitano Segre e delle operazioni militari che portarono all’apertura della breccia di Porta Pia è raccontata con preziosi dettagli da Antonio Zarcone all’interno del volume Gli ebrei italiani nella Grande Guerra (Giuntina) che raccoglie gli atti dell’omonimo convegno tenutosi presso il Museo Ebraico di Bologna, l’11 novembre 2016.
Ancora oggi c’è chi sostiene che Segre fu scelto in quanto ebreo, quindi immune a una possibile scomunica papale. In realtà, come tiene a precisare Zarcone, Segre fu scelto per le sue capacità militari.
Come Segre infatti, molti altri ebrei italiani ricoprirono ruoli di rilievo durante e dopo le guerre d’Indipendenza. Basti pensare che nel 1895 l’annuario dell’Esercito Italiano conta 700 ufficiali ebrei in servizio permanente. Mossi dagli ideali illuministi e liberali dell’epoca, gli ebrei italiani videro nel Risorgimento un’occasione unica per suggellare l’uscita dai ghetti e la propria emancipazione, a cui lo Statuto Albertino del 1848 aveva dato un riconoscimento istituzionale.
Negli anni che vanno dal Risorgimento alla Prima guerra mondiale, gli ebrei italiani accedono rapidamente a ruoli di primo piano non solo tra i ranghi militari, ma anche all’interno di altre istituzioni. Grazie all’alto tasso di istruzione, gli ebrei raggiunsero cariche di rilievo all’interno dell’esercito. Molti furono militari di carriera e ufficiali di completamento, in numero proporzionalmente maggiore rispetto al resto della popolazione.
Risulta difficile stabilire un numero esatto degli ebrei italiani che parteciparono alla Prima guerra mondiale. Con il processo di integrazione iniziato con la Statuto Albertino, la denominazione di “ebreo” scomparve dall’anagrafe così come dai registri di leva. L’unica caratteristica che poteva in qualche modo distinguere gli ebrei dal resto dei cittadini italiani era l’iscrizione a una comunità, cosa per altro non obbligatoria.
La mancanza di documenti ufficiali ha necessariamente dato vita a diverse valutazioni numeriche tra gli storici. I numeri oscillano tra i 3.500 e i 5.000 partecipanti su un totale di 35.000 ebrei italiani. Stando ai dati forniti da Pierluigi Briganti – considerato fonte di riferimento da diversi storici – 3.751 furono gli ebrei italiani combattenti durante la Grande Guerra, di cui 2.409 ufficiali e 1.182 sottufficiali. Questi numeri ci dicono che il 64,2% dei militari ebrei ricoprirono la carica di ufficiale, mentre a livello nazionale il rapporto tra ufficiali e truppa si attestava intorno al 4%.
Al di là delle valutazioni numeriche, gli storici concordano nel sostenere che la Grande Guerra fu vista dagli ebrei italiani come un “banco di prova nell’attaccamento all’Italia”, per usare le parole di Bruno Di Porto. Come spiega lo storico romano, l’emancipazione degli ebrei italiani è contemporanea alla formazione della società italiana stessa. Una società nuova, forgiata dalle guerre risorgimentali e desiderosa di imporsi anche sul piano internazionale. Ecco perché la Grande Guerra fu vista da molti, ebrei e no, come un secondo Risorgimento, o meglio il proseguimento di un processo che avrebbe rafforzato non solo i legami interni, ma anche la statura politica internazionale della penisola.
Per quanto affascinante e a tratti convincente, l’idea del secondo risorgimento lascia scoperto un elemento di non poco conto, se si adotta la prospettiva degli ebrei italiani. L’ebraismo è da sempre espressione di un sentimento universalista e umanitario, che poco ha in comune con gli ideali nazionalisti e militaristi. La guerra avrebbe inevitabilmente portato ebrei di Paesi diversi a combattere gli uni contro gli altri, in un bagno di sangue fratricida. Senza contare il fatto che gli ebrei italiani avrebbero combattuto al fianco di un alleato come l’impero zarista, dove l’emancipazione degli ebrei era più che un miraggio e dove i pogrom erano all’ordine del giorno.
Come si spiega allora la partecipazione degli ebrei italiani alla Prima guerra mondiale? Come riuscire a conciliare il sentimento universalista ebraico con il nazionalismo militarista?
L’ebraismo scende in campo: Pronti a tutto per difendere l’italianità
“È giunta l’ora. L’Italia nostra ha dichiarato la guerra (…) e noi all’Italia daremo noi stessi, interamente. Ogni sacrificio ci parrà dolce, ogni privazione un dovere. (…) Tutto l’Italia ha il diritto di pretendere da noi, e tutto noi le daremo”. Così recitava il Vessillo Israelitico, uno dei principali organi di stampa ebraica in Italia al momento dell’entrata in guerra.
Il dibattito tra interventismo e neutralismo coinvolse necessariamente anche gli ebrei italiani. Eppure, risulta oggi difficile trovare traccia degli ebrei “pacifisti”, che evidentemente preferirono non esporsi pubblicamente nelle settimane precedenti all’entrata in guerra.
Come spiega Anna Foa all’interno del suo saggio, difficilmente gli ebrei italiani avrebbero potuto schierarsi con un pacifismo di stampo prevalentemente cattolico e rurale, un mondo estraneo se non addirittura ostile a chi invece cercava integrazione e senso d’appartenenza. Per questo motivo, spiega la storica torinese, la volontà di integrazione degli ebrei trovò nell’interventismo uno sbocco naturale, seppur in forme diverse.
Gli ebrei italiani dell’epoca possono essere divisi in due gruppi principali: gli assimilati e i sionisti. Entrambi furono legati all’interventismo ma con modalità diverse, nel difficile compito di giustificare una guerra fratricida e quindi di risolvere il conflitto tra identità nazionale e identità religiosa.
Il primo gruppo, gli assimilati, aveva come punto di riferimento il Vessillo sopracitato. Foa li definisce “una maggioranza silenziosa interessata solo a integrarsi”. Come appare dalle righe del Vessillo, questo gruppo di ebrei accetta la guerra per quello che è, senza la pretesa di dover trovare una giustificazione morale. L’ebreo italiano è cittadino come tutti gli altri, e in quanto tale deve sostenere le scelte della propria nazione. Gli ebrei assimilati si dichiarano pronti a ricompensare con il sangue il dono dell’emancipazione. In questo senso vedono nella Grande Guerra un rito di passaggio necessario verso il raggiungimento di quello che Foa definisce “il suggello finale dell’italianità”.
Dare un senso alla guerra
Il più piccolo ma anche più impegnato gruppo sionista cercava invece di trovare un senso “ebraico” alla Grande Guerra e lo faceva sulle pagine di un altro organo di stampa, La Settimana Israelitica.
Questi ultimi davano maggiore attenzione alle sorti degli ebrei negli altri Paesi, specialmente nell’Europa orientale, dove l’emancipazione ebraica appariva ancora come un lontano miraggio.
Con l’editoriale del 28 maggio 1915, il direttore della Settimana Israelitica, Alfonso Pacifici, riuscì a dare un significato ebraico al sentimento interventista. Gli ebrei, una volta ottenuta l’emancipazione, non potevano più nascondersi dietro l’immagine di spettatori delle guerre. Nonostante si trovassero a combattere gli uni contro gli altri, gli ebrei avevano adesso un ruolo da protagonisti all’interno dei rispettivi eserciti, proprio come Segre lo era stato durante il Risorgimento. Un ruolo che andava ben oltre il mero combattimento.
Secondo i sionisti fiorentini capitanati da Pacifici, i combattenti ebrei avrebbero cercato di dare una forma di dignità a un fenomeno atroce come la guerra, e avrebbero insegnato a non odiare i propri nemici.
A precipizio nel nazionalismo: Il cambio di rotta
Nella primavera del 1915, quando l’Italia si era ormai decisa a entrare in guerra ribaltando le precedenti alleanze, una considerevole parte dell’ebraismo italiano si schierò a favore della partecipazione al conflitto. Adottando il vecchio spirito irredentista risorgimentale, molti ebrei italiani si arruolarono con la convinzione che il loro contributo avrebbe liberato quei popoli ancora oppressi dal dominio austriaco. A questo si aggiunse la convinzione che, una volta terminata la guerra, gli ebrei avrebbero suggellato la loro integrazione all’interno della società italiana.
Ben presto però, la Grande Guerra tradì le aspettative di chi l’aveva sponsorizzata. Quella che doveva essere una guerra lampo, si trasformò in un’interminabile ed estenuante guerra di trincea. Quei giovani soldati che si erano arruolati con spirito patriottico ed irredentista furono sopraffatti da un profondo senso di smarrimento e perdita di identità. Così, i valori liberali che avevano caratterizzato le brevi ma intense guerre risorgimentali vennero inevitabilmente accantonati.
In un esercito ormai privo di stimoli e convinzioni, trovò sempre più spazio un nazionalismo militarista e intollerante, dove l’odio per il nemico rappresentava il più forte, se non l’unico, motivo di coesione interna.
Di fronte a tale stravolgimento di ideali e convinzioni, gli ebrei italiani furono tutt’altro che controcorrente. Secondo Anna Foa, essi furono spettatori, e in alcuni casi anche artefici, dell’avvento del nazionalismo di stampo mussoliniano. Il risultato fu uno stravolgimento non soltanto degli ideali liberal-democratici, ma anche dei valori che avevano fino ad allora caratterizzato l’universalismo ebraico. Da una concezione liberale e umanitaria dell’ebraismo si passa a una diametralmente opposta, fondata sulla potenza e sulla guerra. “Siamo dei soldati, siamo dei fascisti…”, scriveva Ettore Ovazza sulla rivista da lui fondata, La Nostra Bandiera.
Dopo aver dato il proprio sangue durante il conflitto, molti ebrei decisero di conformarsi al cambio di rotta per non mettere a repentaglio il tanto agognato, e se vogliamo meritato, raggiungimento della piena italianità. Così facendo però, persero di vista i valori fondanti dell’ebraismo e furono in molti casi incapaci di riconoscere il pericolo imminente. Scrive Anna Foa: “Gli ebrei italiani, o almeno una gran parte di essi, stavano scivolando dai principi liberali a quelli dittatoriali senza quasi neanche accorgersene. La guerra li aveva cambiati, come aveva cambiato il mondo. Solo che per loro il risveglio sarebbe stato più brutale, e sarebbe avvenuto prima degli altri italiani, nel 1938”.