di Ilaria Ester Ramazzotti
Era un caldo giorno dell’estate libica quando a Tripoli, in concomitanza con lo scoppio della Guerra dei sei giorni nel Golan e nel Sinai, gli animi surriscaldati di una folla inferocita scatenarono un violento pogrom contro la popolazione ebraica della città, da secoli parte integrante della società locale. Nel rione ebraico chiamato hara, nella zona nord-occidentale della capitale, quel 5 giugno 1967 vennero distrutti negozi, date alle fiamme automobili e abitazioni, uccise diciassette persone. Furono invase case, pugnalati abitanti e disperse famiglie.
Nel recente passato c’erano già stati in Libia altri violenti pogrom, come quello iniziato il 4 novembre 1945 e durato alcuni giorni, con 130 morti, e quello del 1948, accesosi dopo un mese dalla proclamazione dello Stato di Israele. Ma se nei primi anni Sessanta la situazione pareva relativamente più calma, in seguito al pogrom del 5 giugno 1967 iniziò l’esodo definitivo di quasi tutti gli ebrei libici. Disordini e omicidi, seppure di minore intensità, si registrarono quel giorno anche a Bengasi. Molti fuggirono in Israele, ma quell’estate circa 4.100 ebrei raggiunsero l’Italia dalla Libia, in areo o in nave, accolti come rifugiati sotto l’egida dell’Alto commissario dell’Onu. Roma fu la loro principale meta, mentre altre famiglie si distribuirono fra Milano, Livorno, Firenze e Latina.
Meno conosciuta è la vicenda legata al vero e proprio salvataggio che i dipendenti Alitalia in servizio all’aeroporto di Tripoli operarono a favore di circa 2.500 di quegli ebrei in fuga, con l’avallo del governo italiano e l’interessamento attivo dell’allora rabbino capo di Roma Elio Toaff. Pur sotto minaccia, anche a rischio della loro incolumità e vita, dirigenti, impiegati e autisti continuarono il loro lavoro portando i perseguitati all’aeroporto e prodigandosi per trovare loro posto sugli aerei in partenza per Roma.
Il caposcalo della compagnia di bandiera italiana nella capitale libica, fra i protagonisti di quel salvataggio, si chiamava Renato Tarantino, ormai defunto. A ricordarlo, dopo averlo cercato per lungo tempo anche attraverso i giornali, ci ha pensato Walter Arbib, ebreo libico fuggito da quel pogrom e successivamente diventato imprenditore in Canada e filantropo noto a livello internazionale. L’occasione è arrivata lo scorso 9 maggio all’hotel Parco dei Principi vicino a Villa Borghese a Roma, nel corso di una serata promossa dall’Associazione degli ebrei libici in Italia, dedicata al riconoscimento e al ricordo di quei dipendenti Alitalia e alla presentazione della biografia di Walter Arbib.
Intitolato ‘Fermi, non sparate, sono Walter!’, il libro è stato scritto dal giornalista israeliano Yossi Melman, per anni redattore del quotidiano israeliano Haaretz, e racconta attraverso la storia personale di Arbib anche quanto accadde in Libia nel 1967. All’evento hanno partecipato oltre all’autore anche Maurizio Molinari, direttore di La Repubblica, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, la presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello, il presidente della Comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi, l’Ambasciatore in Italia dello Stato d’Israele Dror Eydar e la presidente UCEI Noemi Di Segni.
Quel fatidico «5 giugno, all’annuncio dello scoppio del conflitto in Israele, in tutta la zona in cui vivevamo ci fu il caos – ha ricordato Walter Arbib nel corso dell’evento, riportato da La Repubblica -. Dalla finestra vedevamo le fiamme e la gente premere contro il portone d’ingresso. Quando sentimmo che salivano le scale spingemmo i mobili contro la porta e dal terrazzo fuggimmo nella casa dei vicini. Chiamai al telefono il console britannico, perché tutti in famiglia avevamo il passaporto inglese. Lo convinsi a farci arrivare all’aeroporto, ma gli inglesi ci lasciarono lì davanti e se ne andarono. All’interno, quando capirono che eravamo ebrei ci spinsero contro un muro, qualcuno ci sputò addosso. Un uomo uscì come un pazzo da un ufficio, cercò di allontanare quelli che ci accerchiavano, offrì a mia madre un fazzoletto per pulirsi il volto. Ci fece salire su una macchina dell’Alitalia per portarci in salvo, a un aereo in partenza, ma i libici ci accerchiarono e fecero cappottare la macchina. Lui intervenne di nuovo, fece rimettere in asse l’auto, poi ci disse che era troppo pericoloso e che dovevamo rimandare. Così tornammo a casa, ritentammo nei giorni seguenti e finalmente riuscimmo a lasciare Tripoli con un volo per Roma. Di quell’uomo che ci aveva aiutato sapevo che lavorava per Alitalia ma nient’altro. Solo dopo molto tempo ho scoperto chi era e gli ho reso omaggio. Un cerchio si è chiuso».
Quell’uomo era Renato Tarantino, la persona tanto cercata e mai più rivista di cui Walter Arbib è di recente riuscito a rintracciare i famigliari, anch’essi presenti all’incontro di Roma insieme a Umberto Vaccarini, un altro dei dipendenti Alitalia. A Tripoli, dove risiedeva in quegli anni, «si viveva bene – ha ricordato Vaccarini riportato sempre da La Repubblica -, ma le tensioni crescevano. Poi nel 1967 cambiò tutto. Il 5 giugno, verso le undici del mattino, gli arabi cominciarono a scendere in strada. I negozi abbassarono le serrande, compreso il nostro ufficio Alitalia. Ci chiudemmo in casa, ma quando fu chiaro che gli ebrei dovevano lasciare il paese, insieme a Tarantino iniziammo a muoverci per far riaprire lo scalo. Era pericoloso per la nostra sicurezza, ma deve capire che per noi quelli non erano semplici passeggeri. Conoscevamo i nonni, i padri, i figli, dovevamo aiutarli”.
L’incontro si è concluso con la consegna da parte di Walter Arbib e di Sileno Candelaresi, presidente del Leone d’Oro di Venezia, di pergamene di riconoscimento ai dipendenti dell’Alitalia e alle famiglie di tutti coloro che salvarono gli ebrei libici in quei drammatici giorni di 55 anni fa a Tripoli. Le storie e le memorie raccontate nel corso della cerimonia sono state riportate anche da Haaretz. In seguito al pogrom del 1967, “gli ebrei che detenevano la cittadinanza straniera chiesero aiuto alle ambasciate e ai consolati di quei paesi, ma questi non furono di grande aiuto – ha pubblicato il quotidiano israeliano -. Poi, al culmine del terrore, la salvezza è arrivata da una fonte inaspettata. Si chiamava Renato Tarantino, un italiano non ebreo che dirigeva l’ufficio di Alitalia a Tripoli e dimostrò vera nobiltà e compassione quando vide cosa stava succedendo in città. Tarantino e il suo vice, Vaccarini, si diedero subito da fare per salvare quanti più ebrei possibile. Insieme agli altri lavoratori Alitalia dimostrarono una creatività impressionante. Usando il loro status e le loro conoscenze nel paese, intrapresero una serie di stratagemmi. Salvarono ebrei disperati che in qualche modo si erano diretti all’aeroporto nella speranza di acquistare un biglietto aereo, per poi ritrovarsi circondati da facchini libici pieni di odio che li insultavano e sputavano contro di loro. Il personale dell’Alitalia protesse fisicamente gli ebrei, respingendo i rivoltosi e mettendoli nelle loro auto per portarli in salvo”. «Inventammo anche delle scuse per togliere dei passeggeri dai voli e far salire a bordo quegli ebrei perché sapevamo che le loro vite erano in reale pericolo», ha svelato ancora Vaccarini riportato da Haaretz. “Un’altra volta, quando un aereo si stava preparando per il decollo, il personale decise invece di ritardarlo e di aprire lo sportello del carico: dopo aver rimosso molti bagagli, furono fatti salire a bordo alcuni passeggeri ebrei che non avevano potuto trovare posto sul volo”. Un volo inaspettato e salvifico verso una nuova vita.