di Ilaria Myr
La famiglia di immigrati turco-lituani. L’infanzia nel Minnesota e la lotta contro la guerra nel Vietnam. Le canzoni spesso ispirate alle letture dei Profeti, del Talmud, della Qabbala. E poi la clamorosa conversione e il tardivo ritorno all’ebraismo. Avventure, vita, arte di uno dei più grandi cantautori di tutti i tempi. Oggi Premio Nobel per la Letteratura
Che il suo vero nome sia Robert Allen Zimmermann, è cosa nota da tempo. Che avesse fatto il suo Bar Mitzvah a Harding, lo è già meno. Ma che il suo nome ebraico fosse Shabtai Zisel Ben-Avraham è per molti una vera scoperta. Questo per il semplice motivo che Bob Dylan non ne parla mai volentieri. D’altronde, è tutta la questione dell’identità che il noto cantautore e scrittore, simbolo di un’intera generazione, ha affrontato in tutti questi anni in modo addirittura contradditorio, scrivendo canzoni intrise di Bibbia, convertendosi al cattolicesimo, e riavvicinandosi tardivamente all’ebraismo.
Una figura senza dubbio enigmatica, che per molti è il simbolo per eccellenza dell’ebreo errante e nomadico. Chi è dunque Dylan l’ebreo? E, soprattutto, quanto la sua identità ebraica ha influenzato la sua musica? È quello che si chiede anche lo studioso Seth Rogovoy nel suo libro Bob Dylan: Prophet, Mystic, Poet (edito da Scribner), appena uscito negli Usa. Dall’attenta analisi di Rogovoy emerge come Talmud, Torà e Qabbalà siano per Dylan delle fonti inesauribili di spunti e di saggezza che egli utilizza con approcci diversi durante tutta la sua carriera: da Blowing in the wind, che riprende alcune immagini dai testi di Isaia ed Ezechiele, a Forever Young, fortemente influenzata dalla liturgia ebraica, fino al periodo più recente, intriso dei concetti ebraici e cristiani di creazione e redenzione. Perché, come ha dichiarato lo stesso Dylan: “Trovo la religiosità e la filosofia nella musica, mentre non le trovo in nessun altro luogo. Non mi riconosco in rabbini, predicatori, evangelisti. Ho imparato molto di più dalle canzoni. Io credo nelle canzoni”.
Nato a Duluth, nel Minnesota il 24 maggio del 1941, figlio di Abraham e Beatty Zimmermann, passa la maggior parte della sua infanzia a Hibbing, Minnesota, una città di minatori con una piccola presenza ebraica. I suoi genitori rispettano la kasherut e sono coinvolti attivamente nelle organizzazioni locali: la madre è presidente della Hadassah locale, mentre il padre lo è al Bené Berith. Dylan stesso scrive nella sua autobiografia Chronicles – Volume 1 che il nome da nubile della nonna paterna era Kirghiz e la sua famiglia era originaria di Istanbul, anche se lei crebbe nel quartiere Kagizman di Kars, nella Turchia orientale. Il nonno paterno era di Trebisonda, città sulla costa turca del Mar Nero, mentre i nonni materni, Benjamin e Lybba Edelstein, erano ebrei lituani emigrati in America nel 1902, mentre il bisnonno osservante metteva tutti giorni i tefillin. Durante gli studi universitari, il giovane Robert-Bob vive alla Jewish Fraternity School nell’Università del Minnesota, e passa numerose estati all’Herzl Campus, un campeggio sionista religioso.
Sono gli anni in cui suona con diversi gruppi, per poi entrare, alla fine degli anni ’50, nel circuito folk della città di Dinkytown. Ed è qui che Robert Zimmermann diventa Bob Dylan: conosce le poesie di Dylan Thomas, e così sceglie il suo nome d’arte. Dopo il cambio di nome, la svolta: si trasferisce a New York nel 1961, per fare visita al suo idolo musicale Woody Guthrie, gravemente malato, e comincia a suonare nei club di Greenwich Village. Ed è qui che decide che quello che fino ad allora è stato il suo pseudonimo, deve invece essere il suo vero nome: alla Corte suprema di New York abbandona per sempre l’identità di Robert Allen Zimmermann, e Bob Dylan diventa anche per la legge il suo nome. Sono gli anni dell’impegno civile, della canzone Blowing in wind, un’epoca in cui diventa il paladino della controcultura e, poi, della protesta contro la guerra in Vietnam. Arriva il successo: il suo album Highway 61, con la celeberrima Like a Rolling Stone è una pietra miliare della storia della musica. È però un’altra canzone di questo disco, Tombstone Blues, a contenere influssi di un’educazione ebraica diffusa: in essa infatti si fa riferimento al film Sansone e Dalila, del 1949, tratto da una novella scritta dal fondatore dell’Irgun Vladimir Jabotinsky, che aveva anche collaborato alla sceneggiatura. Il film aveva molto colpito l’immaginazione del piccolo Bob. Nel 1965 Dylan si sposa con Sara Lownds, nata Shirley Marlin Noznisky (o Novoletsky), una modella e coniglietta in un Play Boy Club, di padre ebreo bielorusso. Le nozze vengono celebrate in forma segreta, sotto un albero di quercia nel giardino di un giudice di pace a Long Island, presenti soltanto il manager Grossman e una damigella d’onore di Sara che fungeva da testimone. Dal matrimonio nascono i figli Jesse, Anna, Samuel e Jakob, diventato quest’ultimo il cantante del gruppo musicale The Wallflowers. Bob adotta anche Maria, la figlia di Sara avuta con il primo marito Hans Lownds.
Negli anni ’70, avviene l’incontro che gli cambia la vita, professionale ma anche privata: dopo un periodo di stasi creativa seguito a un incidente (vero o presunto?) in moto, nei primi anni ’70 conosce Norman Raeben, pittore nonché figlio dello scrittore yiddish Sholom Aleichem. Il contatto con questo artista influenza profondamente la sua poetica, tanto che dà alla sua casa discografica il nome “Ram’s Horn Music”, e dichiara: “Sono ebreo. Questo influenza ogni giorno la mia poesia, la mia vita, in modi che non posso descrivere”. Ma questa amicizia porterà al divorzio del matrimonio già traballante con Sara.
Alla fine del 1970, la conversione al cristianesimo: dal gennaio all’aprile del 1979 Dylan frequenta una classe di biblistica alla Vineyard School of Discipleship nel sud della California. Il pastore Kenn Gulliksen dichiarò: “Larry Myers e Paul Edmond andarono nella casa di Dylan e gli amministrarono i sacramenti. Rispose dicendo “Sì”, lui in effetti vuole Cristo nella sua vita. E pregò quel giorno e ricevette il Signore”. Alla conversione seguono due album di musica gospel cristiana, Slow Train Coming e Saved. La convinzione nella nuova fede è tale che mentre è in tour tra l’autunno del 1979 e la primavera del 1980, Dylan non volle suonare nessuna delle sue vecchie, laiche canzoni, ma fa anzi dichiarazioni sulla propria fede dal palco. Lo studioso Seth Rogovoy, nella biografia, ci racconta come sua madre Beassy cerchi in questo periodo di riportarlo alle sue radici ebraiche, e di convincerlo a farsi visitare i denti da Howard Rutman, un dentista amico di infanzia. Che mentre gli cura la bocca nota la croce che ha al collo e gli dice: “Ma Bob, che ti succede? Tu sei ebreo”. La sera dopo lo invita a cena a casa sua con la sua ragazza di allora, la quale crea non poco imbarazzo per il modo in cui parla di Gesù a Rutman e alla moglie.
Ma paradossalmente è proprio nel periodo cristiano che Dylan scrive le canzoni più ebraiche, come l’album Infidels, definito da alcuni critici ‘il disco più di destra ebraica mai scritto da un noto cantante’.
Negli anni ‘80, il ritorno all’ebraismo. Nell’82, Bob è a Gerusalemme durante il Bar Mitzvah del figlio, e la fotografia che gli fa Sara nell’occasione è stato in seguito utilizzata come foto di copertina dell’album Infidels. Negli anni si avvicina al movimento Chabad Lubavitch, di cui frequenta di tanto in tanto le sinagoghe. Nonostante tutto ciò, Dylan rimane Dylan: un sperimentatore, curioso mescolatore di fedi, un uomo che, nonostante le critiche, canta davanti al Papa Giovanni Paolo II, nel 1997, ma che ha il coraggio di dichiarare: “Chi dice che sono cristiano? Come Gandhi, io sono cristiano, sono ebreo, sono musulmano, sono indù. Sono un umanista”.