Ruth Foà: «Mi è rimasta la paura dell’uomo che può denunciarmi e farmi portare via…»

Personaggi e Storie

di Ilaria Myr

27 gennaio: la testimonianza di Ruth Hauben Foà. Di madre ungherese e padre polacco, nata nella Saar franco-tedesca, si trasferisce nel ’37 a Milano. Poi l’internamento a Ferramonti, poi in Abruzzo. Ma arriva l’8 settembre 1943 e l’occupazione nazista, la fuga, la paura…

«Posso dire di non avere mai patito la fame durante la guerra, ma la paura dell’uomo sì, soprattutto di quello in divisa, che ti può denunciare e portare via. E questa mi è rimasta fino a oggi». Ci parla nel salotto di casa sua a Milano Ruth Hauben Foà, 90 anni portati benissimo, uno sguardo vivace e una memoria sorprendente sugli anni vissuti mentre in Europa imperversava il secondo conflitto mondiale, quando era una bambina. «Non so più quello che ho fatto ieri, ma di quegli anni ricordo tutto, giorno per giorno, e rivedo tutto davanti ai miei occhi», commenta divertita.

Soprattutto, rivede il campo di Ferramonti di Tarsia, dove ha passato un anno sereno quando aveva solo sei anni, e risente la tensione degli spostamenti successivi, quando dovevano nascondere la propria identità ebraica nell’Italia nazi-fascista.
Nata nel 1934 nella Saar, zona tedesca allora appartenente alla Francia da madre ungherese e padre polacco, si trasferisce con la famiglia nel ’37 a Milano. «Già dal ’33 (anno dell’ascesa di Adolf Hitler al potere, ndr) in quella zona della Francia dove si parlava solo tedesco, la situazione per gli ebrei cominciava a essere difficile – racconta a Bet Magazine-Mosaico -. Avevamo degli amici di famiglia che avevano deciso di trasferirsi a Milano e li abbiamo seguiti. Abbiamo quindi trovato una casa in via Pergolesi e mio padre un negozio dove svolgere il suo lavoro di gioielliere e orologiaio».

Le Leggi razziali erano già state emanate e quindi Ruth viene mandata alla scuola di via della Spiga, dove nel pomeriggio si tenevano lezioni per bambini ebrei. Ad accoglierla ogni giorno fuori dalla scuola c’era Marta Navarra, educatrice, professoressa e traduttrice, donna volitiva e attiva, fortemente impegnata nelle attività di beneficenza e solidarietà nei confronti delle comunità ebraiche in Italia e in Palestina, e poi esponente di spicco dell’ADEI-WIZO.

Una vita tutto sommato serena, nonostante l’inizio delle discriminazioni nei confronti degli ebrei, allietata dalla nascita della sorellina Sonia. Nel 1939, però, la battuta d’arresto: il padre, apolide, viene fermato per strada dai fascisti e, non avendo i documenti, viene mandato al carcere di San Vittore. «Ricordo che mia madre ci fece fare da un fotografo delle belle foto, da regalargli quando andavamo a trovarlo. E mi rivedo camminare in un lungo corridoio di San Vittore con mia madre e mia sorella, mentre i prigionieri ci guardavano incuriositi dalle celle… Poi però viene trasferito nel campo degli apolidi a Ferramonti di Tarsia, in Calabria». Si tratta del più grande dei 15 campi di internamento costruiti nell’estate del 1940 su ordine di Mussolini e anche il principale, in termini numerici, tra i numerosi luoghi di internamento per ebrei, apolidi, stranieri nemici e slavi all’indomani dell’entrata in guerra. Viene liberato dagli inglesi nel settembre del 1943, ma molti ex internati vi rimangono fino a quando viene chiuso, l’11 dicembre 1945: è in assoluto il primo campo di concentramento per ebrei a essere liberato e anche l’ultimo a essere formalmente chiuso.
Sebbene sia collocato in una zona malarica e sia comunque un luogo di prigionia, la vita nel campo di Ferramonti è serena e attiva, grazie all’impegno degli internati nel creare iniziative e spazi che rendano le giornate meno gravose.

«Arrivato al campo, mio padre scrive a mia madre di raggiungerlo, perché lì non si sta male – continua Ruth -. E lei, che non parlava ancora bene l’italiano, e con due figlie piccole, non ricordo come, affronta questo lungo viaggio fino alla Calabria». Lì trovano lunghe baracche, dove le famiglie presenti vivono in spazi divisi da tende, per consentire un briciolo di intimità («ma le litigate e le discussioni si sentivano eccome!») e una vita molto organizzata dagli stessi internati. «C’erano medici, infermieri, avvocati, insegnanti, musicisti, artisti… e ognuno cercava di mettere a disposizione degli altri le proprie abilità e conoscenze – ricorda -. C’era un coro, un corso di ginnastica, una squadra di calcio, una scuola, un asilo e anche una sinagoga, in cui mio zio svolgeva le funzioni di rabbino. Certo, eravamo in un luogo di prigionia, ma ho comunque ricordi buoni. Anche perché il direttore del campo (Paolo Salvatore, ndr) era molto gentile, quasi un amico con gli internati, che trattava non come prigionieri ma come ospiti: ricordo che invitava noi bambini sulla jeep e ci portava fuori dal campo a raccogliere frutta da portare alle famiglie».

Quando poi, nel 1941, iniziano le avvisaglie di un imminente sbarco in Sicilia degli Alleati, gli internati vengono mandati via e la famiglia Hauben viene inviata in Abruzzo. E lì inizia un periodo meraviglioso, che dura fino all’8 settembre 1943. Si stabiliscono a Carsoli, a 800 metri di altitudine, dove Nazareno Eboli, uno degli uomini più facoltosi del paese, pur sapendo che sono ebrei li prende sotto la propria protezione. «Mio padre, che teneva moltissimo all’istruzione, trova qualcuno che mi dia lezioni private, e così a sette anni posso fare l’esame di Stato: il presidente della comunità ebraica di Roma mi viene a prendere in auto, vengo ospitata e coccolata, faccio l’esame e mi riportano a Carsoli».

Ma dopo l’8 settembre 1943 e l’occupazione dei nazisti la situazione precipita: gli Hauben, come tutti gli ebrei, devono nascondersi, e inizia quindi un periodo di continui spostamenti. Eboli li porta il giorno stesso dell’annuncio dell’Armistizio in una malga sulle montagne a dorso di mulo e, dopo qualche giorno, in un altro paese dove abitano suoi conoscenti e famigliari. «Uno di questi ci ha messo nel solaio di una casa di pietra dove viveva sua nonna, ma il giorno dopo la donna ci dice che era arrivata una camionetta di nazisti e che si erano stabiliti proprio nella casa! Quindi abbiamo passato otto giorni in totale silenzio, senza fare rumore, proprio come Anna Frank: mio padre ci faceva disegnare e inventava dei giochi per tenerci buone». Andati via i nazisti, vengono spostati da una signora, Fornarina, che aveva nove figli, e che li salva dall’arresto. «Un giovane fascista si presenta alla porta e le dice che deve portarci via. Ricordo ancora come se fosse ieri la scena: lei gli si para davanti e gli dice in dialetto: ‘ma che ti hanno fatto due bambini e due genitori? Vai via e dici che non li hai trovati!’. Questo ragazzo non si aspettava una reazione del genere ed è andato via. Eravamo salvi!».

Si trasferiscono nel paese di Santa Lucia e poi vengono portati in un altro luogo, più vicino a Roma. Il 5 giugno la capitale viene liberata e Ruth e la sua famiglia sentono dal quinto piano, dove erano nascosti, la gente che urla “È finita la guerra!”. «La prima cosa che vede mio padre è una camionetta da cui scende un soldato con scritto sulla divisa “Palestine Brigade”, e ricordo benissimo lui che scoppia a piangere e abbraccia le gambe di questo soldato, che ci porta a Roma». Nella capitale, ancora dilaniata dalla fame, trovano un conoscente del padre, che li fa sistemare in una grande casa appartenuta a un fascista. Man mano la vita ricomincia, le bambine vanno a scuola e possono farsi amici e parlare con altri bambini, cosa a loro proibita fino ad allora. Dopo la maturità classica, Ruth si trasferisce a Milano da una cugina per studiare lingue all’università: qui comincia a frequentare il movimento ebraico degli Tzofim, dove conosce Vito Foà – che diventa un noto docente universitario -, con cui si sposa e ha una figlia, Michaela, che le dà due nipoti, Marta e Sara.

In questi anni, Ruth si è recata due volte al campo di Ferramonti, ci andrà ancora per il 27 gennaio 2025, e ha parlato nelle scuole della sua esperienza durante la guerra. «Mi ha sempre colpito la grande attenzione con cui i ragazzi mi ascoltano, non riescono a credere a quello che racconto. Purtroppo, però, l’antisemitismo riesploso e l’odio contro Israele e gli ebrei mi spaventano. E la paura dell’uomo, che ho assorbito da piccola in quegli anni, riaffiora prepotente».