Solo la speranza lenisce il dolore: la testimonianza di Simone Veil al Memoriale della Shoah

Personaggi e Storie

di Giovanni Panzeri 

“Penso a quel momento in cui (…), nel campo di Birkenau, abbiamo percepito il rischio che ci sterminassero tutti. Dato che molti sono morti durante le marce o in seguito sui treni, era necessario che qualcuno tornasse per raccontare. (…) Comprendo anche coloro che non se la sono sentita di parlare, perché era troppo doloroso, troppo difficile. Credo che alcuni non abbiano mai raccontato niente alle famiglie… perché per le nostre famiglie può essere insopportabile”.

Sono queste le parole di Simone Veil con cui la giornalista del Corriere della Sera, Micol Sarfatti, e lo storico David Bidussa hanno deciso di aprire la presentazione di Solo la Speranza lenisce il Dolore, al Memoriale della Shoah di Milano lo scorso lunedì 19 febbraio.

Il libro è una trascrizione della testimonianza rilasciata all’ Istituto Nazionale Audiovisivo (INA) francese da Simone Veil, ex deportata nei campi di sterminio di Auschwitz e di Bergen Belsen che, tra le altre cose, fu il Ministro della Salute francese responsabile per la depenalizzazione dell’aborto e la prima donna eletta alla presidenza del Parlamento Europeo.

 

Nell’intervista Simone Veil, nata Simone Jacob, non si limita a narrare la terribile esperienza dei campi di sterminio, durante la quale perse la madre a causa di tifo e privazioni, ma si sofferma anche sulla vita prima e dopo la deportazione.

 

Tradimento e smarrimento

Nella prima parte del libro emergono il senso di tradimento e di smarrimento, comune a molte vittime della Shoah, da parte della famiglia Jacob verso una società in cui si sentivano perfettamente integrati.

“È un aspetto che sfugge un po’ quando si parla dell’era delle leggi razziste e delle deportazioni- spiega Micol Sarfatti – ma molte persone, tra cui Simone Veil, presero percezione del proprio essere ebrei solo nel momento in cui questo divenne un problema.  Nel momento, come scrive lei stessa, in cui la sua identità divenne un pericolo per la sua famiglia

 

È inoltre importante sottolineare, secondo David Bidussa, come il senso di smarrimento causato dalla persecuzione e dalla deportazione verso i campi di sterminio, testimoniato dalla Veil, rappresenti la distruzione dell’identità di chi “si credeva parte di un grande paese”, di una comunità nazionale, e poi viene costretto a confrontarsi con l’incertezza della propria sorte e a mettere in discussione il proprio posto nel mondo.

 

 

Divide et impera

 

Dal racconto della Veil emerge  la mancanza di solidarietà tra le diverse categorie dei deportati, causata dalle necessità di sopravvivenza e dalla grande capacità dei nazisti di mantenere i diversi gruppi in competizione tra loro.

 

“C’era una divisione verticale tra i prigionieri politici, i criminali, i deportati per ragioni razziali ed altri- spiega Bidussa- c’è della diffidenza tra loro, non si stabilisce una comunità, a differenza di quello che succede a volte in carcere. I nazisti, attraverso il divide et impera, riescono a mantenere una condizione conflittuale tra le diverse categorie”.

 

“I nazisti puntavano alla spersonalizzazione totale, ad esempio attraverso i tatuaggi numerici- afferma Micol Sarfatti- ma allo stesso tempo fomentavano le divergenze e sottolineavano le differenze tra i deportati. Anche questo testimonia quanto fosse forte la loro volontà di sterminio ”.

 

La lotta per la Memoria

 

Dall’esperienza successiva alla deportazione emerge invece la difficoltà incontrata dai sopravvissuti nel raccontare le loro esperienze, anche ai propri cari, e la lotta della Veil per sostenere la necessità di un’Europa unita ma consapevole del proprio passato, in cui i confini non rappresentino più un simbolo di paura dell’altro e di divisione.

 

“Credo che avessimo un forte desiderio di parlare – afferma Simone Veil – ma ci siamo scontrati con un muro di silenzio. Penso che per i nostri cari ascoltare (…) fosse troppo doloroso, che sia stato terribile. Alcuni addirittura si sentivano in colpa (…) perché non erano stati arrestati e deportati. Quanto all’opinione pubblica, esisteva sicuramente un senso di colpa collettivo. Infine a livello politico c’era la volontà di pacificare, quindi era inutile parlarne, perché il passato è passato e allora bisogna dimenticare (…) come se non fosse successo nulla”.