di Tiziana Palandrani
Se al momento di lasciare la loro amatissima Spagna le donne sefardite trovarono la forza di cantare e di suonare il pandero, possiamo essere certi che portarono con sé anche l’arte della preparazione dei cibi, accuratamente avvolta nella memoria.
Tuttavia, poiché per secoli la loro sopravvivenza dipese dal non lasciare tracce, è difficile indagare anche l’ambito gastronomico, per quanto si tratti di un tema attraente dove volgere lo sguardo (e il gusto) quando ci si propone di sondare i percorsi della storia.
Uno di questi percorsi riguarda la Sardegna, situata al centro delle direttrici culturali del Mediterraneo, pertanto meta di passaggio o permanenza anche per chi viaggiava dalla penisola iberica verso l’Italia o l’Oriente.
La presenza ebraica nell’isola risale a tempi assai remoti ma la documentazione nota inizia con l’epoca romana e si svolge ininterrottamente fino all’Editto del 1492, vigente anche in Sardegna in quanto territorio sottomesso al dominio aragonese.
Prima dell’Editto di Granada la Corona d’Aragona mostrò un atteggiamento tollerante nei confronti degli ebrei dell’isola, la cui pratica del commercio e di attività indispensabili valse loro particolari privilegi, nonché il raggiungimento di un grado di integrazione con la popolazione locale, tale da far definire l’ebraismo sardo «una propaggine sefardita» .
I documenti tratteggiano una Sardegna frequentata principalmente da israeliti catalano-aragonesi, maiorchini e francesi, ma poiché dopo il 1492 le tracce della loro presenza sfumano, al momento dobbiamo supporre che gli elementi di origine ebraica presenti nella tradizione sarda siano stati introdotti principalmente prima di questa data, tramandati grazie allo spirito conservativo degli isolani e alla presenza di conversos.
E poiché la forza dei segni rimane operativa nel tempo perpetuata da memorie e consuetudini, ritroviamo raffigurazioni significative anche nelle arti sarde, ad esempio nelle caratteristiche pavoncelle.
Queste sembrano condividere la stessa simbologia dei pavos reales della pileta trilingüe custodita al Museo Sefardí di Toledo, rappresentati l’uno di fronte all’altro intorno alla menorah, la quale in Sardegna è stata sostituita da vasi di fiori o da motivi lussureggianti.
Anche nel lessico, in particolare quello connesso alla scansione del tempo, la lingua sarda rivela etimologie evocative, spiegate da alcuni linguisti come apporto culturale degli ebrei dell’Africa settentrionale stabilitisi in Sardegna.
Tra queste, il mese di giugno – chiamato in sardo lámpadas – viene riferito da Max Leopold Wagner alla tradizione nordafricana di accendere fuochi durante le feste rurali del solstizio d’estate, mentre il mese di settembre viene detto cabidanni perché coinciderebbe con l’inizio dell’anno ebraico, Rosh Hashanah, di cui rappresenterebbe una traduzione letterale.
Mentre per quanto riguarda la cucina, il retaggio ebraico si fa risalire all’interpretazione del nome chenábura, con cui in lingua sarda viene denominato il venerdì, che secondo Giuliano Bonfante «è da riportarsi alla festa ebraica della vigilia del sàbato, la Parasceuē (…), chiamata infatti cēna pūra da Tertulliano» , mentre il Wagner riferisce che gli ebrei adottarono il termine coena pura «per designare la vigilia della Pasqua, durante la quale ogni traccia di lievito doveva essere rimossa dalle case (…), e data la provata convivenza di cristiani ed ebrei nei primi tempi del Cristianesimo in Sardegna, fu adottato in seguito anche dai cristiani sardi» .
Tuttavia, in considerazione del fatto che il venerdì rappresenta un giorno di astinenza anche per i cristiani, propenderei per una decodifica meno risolutiva che renda conto invece di come l’isola abbia rappresentato un raro esempio di convivenza propizia tra ebrei e cristiani.
Pertanto è plausibile ravvisare l’eredità di questa integrazione nella preparazione del pane àtzimu (azzimo) detto anche pane pùrile (senza lievito, veniva cotto nella cenere o sopra il carbone ), nel liquore di mirto, nell’antichissima arte del bisso, o nella predilezione per certi cibi, quali ad esempio la melanzana. Quest’ultima vanta un considerevole numero di citazioni nel repertorio poetico-musicale sefardita, tra cui l’ironico ricettario in versi El guisado de las berenjenas, ed è curioso che anche nel repertorio della canzone popolare sassarese, alla melanzana sia stata dedicata una canzone salace che, seppur relativamente recente, rispecchia la considerazione per questo ortaggio.
Ciò nonostante, è nei cibi che scandiscono il calendario religioso ed agricolo – in particolare nei dolci preparati per celebrare le varie ricorrenze – che ritroviamo un simbolismo e una sacralità ancora così fortemente sentiti nell’isola da rievocare un passato recondito.
Solitamente riguardo a forme e sapori che sono presenti nella tradizione di civiltà lontane tra di loro è ragionevole ipotizzare una comune origine, quando non si voglia giustificare la questione attraverso gli universali umani.
E così la forma peculiare della pàrdula è affine alla quesadilla dell’Ecuador o alla kalitsounia dell’isola di Creta, luoghi di approdo e rifugio dei sefarditi.
Al contrario, la versione salata delle pardulas con l’aggiunta di patate ed erbe, contiene gli stessi ingredienti delle gizadas de patata i kezo di Rodi, riportate da Stella Hanan Cohen, ricercatrice e discendente degli ebrei sefarditi dell’isola greca.
La pardula si compone di un ripieno di ricotta e formaggio ovini, adagiato su un cestino di pasta i cui bordi vengono pizzicati fino ad ottenere una stella a sei punte; tuttavia, secondo altre versioni, i biccos (pizzichi) devono essere cinque o sette, numeri altrettanto simbolici.
La straordinaria varietà osservabile in tutte le tradizioni dell’isola, dalla musica all’artigianato, si riflette anche nelle diverse elaborazioni di uno stesso dolce a seconda del paese, giustificando la presenza di geosinonimi.
Anche il Visitatore Reale Martin Carrillo, nel 1612, rende conto di questa varietà nel suo rapporto sulla Sardegna inviato al re Filippo III di Spagna, riferendo che i sardi «hazen frutas de pasta y mil, y pasta de Marçapanes, con muchas labores muy vistosas y curiosas, que no las hazen en Castilla».
Tra gli altri ingredienti troviamo: fior di farina di grano duro, uova, scorza di limone o arancia, zucchero e zafferano.
E un pizzico di sale.
La pardula condivide con altri dolci sardi questo importante dettaglio che la colloca in un contesto sacrale poiché il sale, emblema del patto con Dio ed indispensabile nelle oblazioni, ha un valore che si esprime anche nella quantità; dunque pochi granelli quale offerta al Signore, per un dolce che celebra una festività, vieppiù tanto speciale quando si tratta della Pasqua.
Dalla testimonianza di Grazia Deledda si evince infatti che la pardula o casadina nasce come dolce preparato alla vigilia della Pasqua e impiegato per suggellare occasioni solenni e rituali:
Ed in ogni casa si fanno “sas casadinas” (schiacciate di pasta), dentellate, con gli orli rivoltati e contenenti del formaggio fresco impastato con sale e zafferano (…). Ed al sacerdote che va a benedire le case si getta una moneta d’argento entro il secchiello dell’acqua santa, e un pane e “casadinas” nella bisaccia recata appositamente dal sagrestano».
La misura più comune delle pardulas è contenuta, ma anticamente – ed ancora oggi in taluni casi – veniva realizzata anche una versione grande «quanto un piatto» , che andava a costituire un pasto unico.
Nei percorsi immensi della tradizione orale, quando i contorni delle origini sfumano nel tempo, l’etimologia può essere di conforto.
Secondo alcuni il nome pardula deriva dal latino quadrula, in riferimento alla sua forma, tuttavia viene difficile individuarvi una forma quadrata, a meno che non si ipotizzi una versione antica di cui non è rimasta traccia, o ci si soffermi solo su una delle tante tipologie di lavorazione della base di pasta.
Il suono ricorda piuttosto il termine sardo bàrdula (gleba) oppure bàrdule (uno dei sostantivi per denominare la pancia), entrambi significati afferenti a sagome arrotondate, quali quelle delle pardulas.
Questa particolare forma, unita alla presenza dello zafferano – spezia che «facilita il parto» – evoca la simbologia della nascita e della vigilia, pertinente alla primavera anche in quanto periodo di nascita degli agnelli (da cui consegue maggiore disponibilità di ricotta e formaggio) nonché inerente all’uovo, emblema della ciclicità della vita.
L’etnomusicologa Susana Weick-Shahak che ha investigato il repertorio di canti sefarditi, informa che «Cuando ha nacido un niño varón, acompañando a “la parida” y a su criatura, se cantan diversos cantares (…), y muy especialmente en la última noche, llamada “noche de viola”» , ossia la notte di veglia dedicata al neonato.
Percorrendo il filo dei suoni si arriva alla pasta violada – amalgama degli ingredienti che compongono il vassoio-base della pardula -, una locuzione in lingua sarda che restituisce il senso della sacralità dell’impasto di farina, acqua e sale ‘violato’ dall’aggiunta dello strutto. Quest’ultimo ingrediente, evidentemente mai utilizzato dai sefarditi, potrebbe rappresentare una variazione alla ricetta originaria motivata dalla necessità di dissimularne l’origine ebraica (ciò spiegherebbe la percezione di profanazione dell’impasto suscitata dall’aggiunta del grasso di maiale), oppure delineare una rielaborazione indotta dalla maggiore reperibilità nell’isola di ingredienti derivati dal maiale, dal momento che le gastronomie tradizionali utilizzano sostanze disponibili in loco.
Il peculiare nome della pardula vanta una antica attestazione nel Canzoniere ispano-sardo, raccolta miscellanea di manoscritti del XVII secolo redatti in lingua castigliana e sarda, esempio del multiculturalismo vigente all’epoca in Sardegna.
A una dama melindrosa è il titolo della copla in spagnolo in versi ottonari, nella quale tra i vari cibi elencati compare il termine pardula, proprio nella prima strofa, curiosamente, dato che il dolce andrebbe a fine pasto e in questo caso è rappresentato da una melagrana:
No quiero, no quiero nada,
sólo quiero mantequillas,
párdulas, sí quesadillas,
y por postre una granada,
no quiero no quiero nada
Come si può osservare il poema condivide con il repertorio sefardita l’impostazione umoristica di certi componimenti riferiti agli alimenti, nonché medesimi procedimenti enumerativi con ripetizioni e serie di versi parallelistici , tipici delle rethailas o di certe Canticas de boda.
Il discorso antifrastico peculiare della cultura sarda si esprime in questo caso nell’uso della negazione per formulare una preferenza, caratteristica che ritroviamo ad esempio nella cantica sefardita El novio no quiere dinero, o nell’ideale dialogo canzonatorio S’habés comida como es la razón.
Tuttavia in questo caso l’ingente quantità di cibo che la donna dovrebbe assumere, ricorda il suggestivo testo cumulativo intitolato Ke komiash, duenya, riportato da Liliana Treves Alcalay quale canto di Pèsach utilizzato per depistare la sorveglianza del Santo Uffizio.
Il novero degli alimenti che vengono citati meriterebbe una trattazione a parte, data la testimonianza storica e i riferimenti a un determinato contesto ed epoca.
Compaiono infatti quesadillas, empanadas, confites y naranjada, che alla fine vengono idealmente disposti in una olla podrida, piatto tipico di Burgos e Castiglia, ereditato dal Medioevo.
Risulta significativa anche la presenza della melagrana (granada), di grande valenza simbolica per gli ebrei e molto amata anche in Sardegna, come ci informa Andrea Manca dell’Arca. L’agronomo del XVII secolo loda infatti le virtù e la base a forma di stella (a sei punte) del frutto «con geometrica e maravigliosa proporzione disposto», sottolineando come «dalle melogranate dolci nelli paesi abbondanti di questo frutto si spreme vino come dalle uve» .
L’uso di questa bevanda era in vigore anche presso i sefarditi.
Benché dopo circa 400 anni di presenza spagnola nell’isola risulti difficile distinguere quali apporti della cultura sefardita provengano da eredità diretta e quali da mediazioni successive o da usanze iberiche comuni, è pur sempre emozionante cercare nelle forme e nei sapori dei dolci sardi il profumo di Sefarad.
Così uno sguardo attento può cogliere negli amarettos de mendula, composti di mandorle, zucchero e uova, una familiarità con gli almendrados del ricettario sefardita, mentre la delicatezza degli ashuplados kon almastica rivive nei marigosos sardi, anch’essi croccanti fuori e morbidi e gommosi all’interno.
O nei pittigados, la cui denominazione moderna ‘veronesi’ per coincidenza richiama i polverones nel nome, negli ingredienti (pasta di mandorle e acqua di fiori d’arancio) e soprattutto nella simbolica forma piramidale.
Sembianza che ritroviamo anche nei pabassinos a s’antiga, all’antica appunto, perché la forma odierna, più comune, ha perso l’altezza della piramide, conservandone solo la base. Potremmo perderci poi nella grande varietà di forme delle origliettas (analoghe alle hojuelas) o trizzas, le quali come evidenzia quest’ultima denominazione, condividono tutte la forma intrecciata.
Oppure scorgere nelle tilicas (anch’esse confezionate con miele, frutta secca, scorza d’arancia e un pizzico di sale) il ricordo delle orejas de Hamán, e nei candelaus di pasta reale una rielaborazione sarda del pastel reale o masapan kon sharope di Rodi, a sua volta retaggio toledano.
I dolci, prediletti anche dai sefarditi, in Sardegna hanno radici latenti e talvolta inconsapevoli, ma dal simbolismo poderoso poiché nell’isola costituiscono una tradizione ininterrotta.
Possiamo beneficiarne oggi grazie alle donne sefardite e sarde che ne hanno trasmesso le ricette nel tempo e nello spazio, con una tenacia che illumina le parole del proverbio sardo: «sul boccone condiviso, ci si siede l’angelo» .
Foto in alto: Amarettus, Marigosos, Tilicas, Pabassinos
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