Storie dimenticate. L’uomo che evase da Auschwitz per avvertire il mondo

Personaggi e Storie

di Marina Gersony

Ci sono storie sconosciute, poco note o semplicemente dimenticate. Come la storia dell’uomo che riuscì ad evadere da Auschwitz per avvertire il mondo e ora ripercorsa e arricchita con nuovi dettagli e nuove rivelazioni nel libro di Jonathan Freedland, editorialista di The Guardian, collaboratore della New York Review of Books e vincitore del Premio Speciale Orwell per il giornalismo. (The Escape Artist. The Man Who Broke Out of Auschwitz to Warn the World, Harper, pp. 400, $ 28,99, per ora solo in inglese).

Molto si sa di Auschwitz, la fabbrica della morte più grande mai realizzata dal nazismo dove, tra il 1940 e il 1944, furono sterminati oltre un milione di prigionieri e per la maggior parte ebrei. Meno si sa invece di quegli uomini eroici che hanno contribuito a far conoscere la verità di quanto stava accadendo nel cuore dell’Europa. Nell’aprile del 1944, Walter Rosenberg e il compagno di prigionia, Alfred («Fred») Wetzler, furono i primi a fuggire da quel girone infernale grazie a un’incredibile dose di coraggio, molta fortuna e un piano audace. Rosenberg, in seguito noto come Rudolf («Rudi») Vrba – nome che gli verrà assegnato dal Consiglio ebraico slovacco nell’aprile del 1944 poco dopo la sua fuga – non scappò soltanto per salvare sé stesso. Oltre a sfidare i nazisti e salvare vite umane, voleva che il mondo sapesse del massacro che il regime nazista stava perpetrando «su scala industriale». Insieme all’amico Fred – a sua volta proveniente dalla Slovacchia e che aveva conosciuto nel lager – doveva scappare ad ogni costo per diffondere la verità, mettere in guardia il mondo intero e spronare i leader globali all’azione.

Walter Rosenberg – il libro di Freedland si focalizza soprattutto su di lui – arrivò ad Auschwitz a 17 anni, inizio luglio del 1942. Era solo un ragazzino quando fu costretto ad assistere, insieme ad altri prigionieri, all’impiccagione pubblica di due uomini che avevano avuto la sola colpa di aver cercato di evadere. Il giovane Walter e gli altri prigionieri dovettero guardare l’esecuzione senza proferire parola. Guai distogliere lo sguardo. Dopo l’impiccagione, i nazisti appuntarono dei cartelli sul petto dei due cadaveri: «Perché abbiamo cercato di scappare». Walter capì al volo il messaggio degli aguzzini rivolti ai detenuti del lager: chiunque avesse cercato di fuggire sarebbe stato impiccato. Il giovane realizzò anche di come i prigionieri di Auschwitz fossero del tutto ignari di quanto stava accadendo: non sapevano dove stessero andando e per quale motivo si trovassero lì. Era un ragazzino sveglio, aveva capito che il crimine che si stava perpetrando non era altro che un enorme e devastante inganno. I nazisti mentivano su tutto: sul viaggio, sulla destinazione descritta come un luogo appartato e confortevole dando ai detenuti l’illusione di un nuovo inizio; un inizio dove l’ordine stava per essere ristabilito. Gli ebrei credevano alla buona fede dei tedeschi, provavano sollievo nel pensare che finalmente cibo e bevande sarebbero stati disponibili, che i loro bagagli sarebbero stati al sicuro in un luogo bucolico che le SS chiamavano con finti sorrisi «reinsediamento a est». La scena stessa del delitto era camuffata. La menzogna era la premessa su cui poggiava l’intero sistema della fabbrica della morte. I nazisti avevano bisogno che la loro macchina per uccidere funzionasse senza intoppi e senza interruzioni.

Il lavoro del giovane Rosenberg alla Judenrampe, la piattaforma ferroviaria dove si fermavano i treni in arrivo con centinaia di ebrei stipati nei carri bestiame, gli avevano consentito di scoprire lo schema truffaldino e criminale delle SS. Lui e i suoi compagni del «comando di sgombero» avevano l’ordine preciso di non proferire parola con i prigionieri che scendeva dai treni. Non doveva esserci alcun contatto con loro. Walter sapeva cosa sarebbe successo se quella regola fosse stata infranta. Nel frattempo, avendo lavorato in diversi settori del lager, si era fatto un’idea sempre più ampia di quanto stava accadendo in quel luogo maledetto. Fu allora che prese la decisione di evadere e di dare l’allarme al mondo intero. Sarebbe stata la sua missione, sarebbe stato lui a raccontare che Auschwitz significava morte e che i nuovi arrivati venivano gasati e non «re-insediati” come sostenevano spudoratamente i tedeschi.
Per quasi due anni sopravvisse grazie a una serie di casualità. In quel periodo elaborò piani di fuga, strinse legami con la resistenza clandestina del campo, acquisì informazioni e mise a punto delle strategie. Non poteva vacillare, non poteva farsi prendere dal panico, doveva agire con freddezza. Assistere alla morte assurda e atroce cui venivano destinati uomini, donne e bambini innocenti avevano sconvolto del tutto il giovane prigioniero.

Passò del tempo prima che il piano di fuga si realizzasse. Il comprensorio di Auschwitz era blindato, impossibile scappare, molti avevano tentato senza successo e pagando con la vita. Ogni singolo dettaglio andava quindi studiato nei minimi particolari, bisognava individuare i punti di debolezza dei carcerieri, il piano non ammetteva il minimo errore. Infine il giorno della fuga arrivò. Lui e Wetzler, fedele compagno di prigionia, rimasero immobili per ben tre giorni in mezzo a una pila di assi in un deposito di legname all’interno del campo dopo aver sparso ovunque tabacco russo a buon mercato imbevuto di benzina per allontanare i cani da caccia e aggirando la rigida routine nazista con i suoi ferrei protocolli. Sapevano che i fuggiaschi venivano ricercati dalle SS al di fuori del campo durante quell’intervallo di tempo. Esausti dalla fatica e dai tre giorni di reclusione, i due ragazzi procedettero quindi verso ovest, a pancia in giù e a passo d’uomo, verso il boschetto di betulle che aveva dato il nome a Birkenau, sempre con il terrore di essere scoperti dalla Gestapo. Non si alzarono fino a che non ebbero raggiunto gli alberi, la stessa piccola foresta che conteneva le fosse dove venivano bruciati i cadaveri giorno e notte. Camminarono attraverso le montagne, le paludi e i fiumi della Polonia occupata dai nazisti, senza una mappa o una bussola, per raggiungere la nativa Slovacchia. Il 10 aprile del 1944, Walter Rosenberg e Alfred Wetzler riuscirono nella folle e rischiosa impresa che avevano stabilito: evadere da Auschwitz. Una fuga degna di un thriller e tutta da leggere nel libro di Jonathan Freedland, arricchita di nuove rivelazioni.

In seguito Walter Rosenberg/Vrba diventò un esperto autorevole della fabbrica della morte di Auschwitz: aveva memorizzato fatti, ricordava i dati, i dettagli, i numeri approssimativi di ogni mezzo di trasporto che arrivava al lager, conosceva a menadito il funzionamento del campo come «centro economico», i mercati neri, i gruppi di resistenza e perfino gli accordi tra gli avidi ufficiali delle SS e i prigionieri. Walter/Vrba e l’amico Alfred scrissero separatamente la propria relazione, in modo che ciascuno raccontasse i fatti secondo il proprio punto di vista. Il resoconto, denominato in seguito Rapporto Vrba-Wetzler – conosciuto anche come i Protocolli di Auschwitz – fu il primo documento a rendere noti i fatti: conteneva descrizioni rigorose sui prigionieri, sui numeri «selezionati» per il lavoro o per le camere a gas e sui tassi di mortalità nel campo falsificati. Completato alla fine di aprile 1944, il primo articolo sul rapporto fu pubblicato su un giornale svizzero nel giugno 1944 e diede il via a numerose inchieste successive. Alla fine il rapporto, passando di mano in mano, attraversando confini, superando censure, pregiudizi, incredulità e scetticismo – perfino tra alcuni ebrei che non erano finiti nei Lager, come denuncia lo scrittore – avrebbe finalmente raggiunto i potenti della Terra, tra i quali Winston Churchill, Franklin Roosevelt e il Papa, e con una serie di mosse straordinarie avrebbe salvato la vita di 200.000 ebrei.

 

VIDEO https://www.youtube.com/watch?v=UvSCSPhvsrM

Walter Rosenberg, alias Rudolf Vrba, nome che avrebbe mantenuto anche dopo la guerra, morì a Vancouver nel 2006, all’età di 81 anni. Nel corso della sua vita, assai movimentata e con svolte inaspettate, il ragazzino forte, determinato e coraggioso che osò scappare da Auschwitz diventò scrittore, docente e medico naturalizzato britannico e canadese. Non smise mai di testimoniare ciò che aveva visto. A quel punto i leader mondiali non potevano più far finta di niente.