Sulla traduzione errata di ‘Se questo è un uomo’ in ebraico e la questione dell’elaborazione della memoria

Personaggi e Storie

di Ilaria Myr
Da quando è uscito in ebraico in Israele, nel 1988, il libro Se questo è un uomo di Primo Levi, pubblicato dalla casa editrice Am Oved, contiene un’omissione abbastanza grave e significativa, che nonostante numerose segnalazioni è perdurata fino ai nostri giorni. Stiamo parlando in particolare di un brano contenuto nel primo capitolo del libro, ‘Il viaggio’, in cui Levi, descrivendo la notte precedente la partenza, racconta, con parole commosse e intense, il modo in cui una famiglia di ebrei di Tripoli, i Gattegno, si preparano alla partenza.

Questo il brano:
Nella baracca 6 abitava il vecchio Gattegno, con la moglie e i molti figli e i nipoti e i generi e le nuore operose. Tutti gli uomini erano falegnami. Venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portati con sé gli strumenti del mestiere, e la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto.
Quando tutto fu pronto, le focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta notte pregarono e piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato.

L’edizione ebraica di ‘Se questo è un uomo’

In questo brano commovente, uno dei più belli del libro, nell’edizione ebraica manca la connotazione libica della famiglia. Una mancanza questa che, per David Meghnagi, studioso ed esperto della storia degli ebrei del mondo arabo, è degna di una riflessione più approfondita.
“L’edizione israeliana esce l’anno successivo alla morte di Levi – spiega Meghnagi a Mosaico – Bet Magazine –, che fu molto contento quando gli venne comunicato che il libro sarebbe stato pubblicato in ebraico. Ma probabilmente se avesse visto questo errore, ne sarebbe stato molto dispiaciuto. Forse è sfuggito al traduttore che a Fossoli ci furono degli ebrei provenienti dalla Libia, alcuni dei quali avevano passaporti europei, come era comune all’epoca nelle comunità ebraiche dei paesi arabi. Ma sarebbe bastato rivolgersi allo Yad Vashem per sapere perché c’erano degli ebrei tripolini”.
La Storia, infatti, dice che alcune centinaia di ebrei libici furono oggetto di deportazioni a partire dal 1942.
Già nel 1940 circa 300 ebrei in fuga dall’Europa per raggiungere la Palestina mandataria attraverso la Libia, furono deportati in Italia. Dopo tre settimane nel carcere di Napoli, furono mandati al campo di Ferramonti.
Gli Ebrei libici con passaporto britannico furono mandati negli anni successivi in diversi campi e poi concentrati a Fossoli da dove verranno portati a Bergen Belsen e in alti campi.

“In questo brano Levi fa riferimento con affettività ed empatia a una comunità che veniva da lontano, una comunità alla periferia dell’Impero, profondamente diversa dagli altri ebrei nel campo – commenta Meghnagi -. Ha fatto lui quello che gli ebrei italiani hanno cominciato a fare solo negli ultimi anni, dando attenzione, con mostre e conferenze, alla storia degli ebrei provenienti dal mondo arabo, che hanno profondamente cambiato la natura delle comunità ebraiche italiane”.

Eppure fino a oggi l’edizione in ebraico è rimasta immutata, nonostante le sempre più frequenti sollecitazioni da varie parti: una su tutte quella dello studioso di fisica Avraham Arbib (figlio di Lillo Arbib, che fu presidente di comunità di ebrei di Tripoli nel periodo del 1948) contenuta in un articolo pubblicato su Haaretz nel 2020 con il titolo ‘Se questa è una traduzione’. Ma anche dopo che è emersa la questione, questa traduzione non è stata modificata.

Ma perché tutto ciò è accaduto? “Se fosse stato solo un problema di traduzione, un editore serio l’avrebbe modificata. Ma se decide di ignorare la mancanza, c’è di più – è convinto Meghnagi -. O il traduttore ha pensato che Levi avesse preso un abbaglio – ma appunto l’editore avrebbe dovuto intervenire, una volta emersa la questione -, oppure c’era una la difficoltà psicologica ad accettare l’idea che l’immagine della presenza di tripolini nel campo potesse costituire il centro della rappresentazione della storia e della tragedia del campo. Tutto ciò fa riflettere su quanto sia stato difficoltoso e doloroso il processo di integrazione delle diverse memorie che hanno fatto da sfondo alla nascita di Israele. Un esempio diverso ma che fa riflettere è stata la l’edizione in ebraico delle memorie di Marek Edelman, vicecomandante della rivolta del ghetto di Varsavia. Il libro è uscito in ebraico solo nel 2000. Edelman era un bundista e quindi non sionista. Ma era anche amico fraterno dei combattenti della sinistra sionista che ricrearono le loro vita spezzate nel Kibbutz di Lohame’ Haghettaoth. A dimostrazione che l’elaborazione della memoria è un processo culturale che richiede tempo”.