«Te lo dirò quando sarai più grande…». E arriva il giorno in cui non si può più tacere

Personaggi e Storie

di Pietro Baragiola

Quale donna si nasconde dietro al personaggio pubblico della senatrice Liliana Segre? Cosa si prova a tornare nei luoghi del dolore? È possibile non tramandare il trauma della persecuzione e dell’antisemitismo ai nostri figli e nipoti? Il regista Ruggero Gabbai racconta il suo docufilm Liliana, presentato al Festival di Roma: un progetto che parla delle violenze collettive e di come disinnescarle

Quando ho visto quello che era successo il 7 ottobre, di colpo mi sono sentita così tremendamente quella di una volta che non sapevo bene se piangere, disperarmi, arrabbiarmi, ma avrei voluto che quelle immagini inguardabili fossero state trasmesse di più, perché troppo presto sono state dimenticate. Dal punto di vista strettamente personale, con la mia storia, dal punto di vista di mamma e di nonna, quei bambini non colpevoli di nulla se non di esistere mi avevano straziata al punto che mi aveva preso una forma di insonnia, per cui non riuscivo a pensare ad altro. Mai avrei pensato che avrei sofferto altrettanto i giorni seguenti….”.
“Dire che Israele commette genocidio è una bestemmia. Non usiamo più questa parola spaventosa”.“Negli ultimi decenni l’antisemitismo è stato sempre latente ma solo perché la gente si è vergognata di mostrarlo. Oggi non si vergognano più”.

Queste, riportate qui sopra, sono solo alcune delle dichiarazioni fatte dalla senatrice Liliana Segre negli ultimi mesi in merito alla guerra a Gaza e sull’impatto del pogrom del 7-10-2023 sulla società civile. Dodici mesi di profonda sofferenza per lei, che ha subito la persecuzione antiebraica quando aveva solo otto anni, che ha vissuto Auschwitz a tredici anni, e che nonostante l’orrore visto e vissuto ha saputo costruire una famiglia ed essere sempre una donna di pace.
Proprio a lei, una delle testimoni principali tra i sopravvissuti italiani alla Shoah, è dedicato il documentario intitolato Liliana, realizzato dal regista Ruggero Gabbai e prodotto da Forma International in collaborazione con Rai Cinema, che verrà presentato il 20 ottobre al Festival del Cinema di Roma. Questo lungometraggio di 86 minuti mette in luce gli aspetti più riservati della vita della protagonista: la discriminazione, l’arresto, la deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, lo struggente addio al padre, il ritorno a casa, la depressione, l’esperienza politica e la scelta di raccontare la sua storia.

“Questa sono io. È durato 45 anni il mio silenzio. Prima volevo fuggire – dai miei ricordi, non da me – ma adesso no. Sono un’altra persona”, racconta Segre nel film.
Il materiale inedito presentato fa parte dell’Archivio della Memoria del CDEC con filmati di 30 anni fa, affiancato da altre voci di persone vicine alla senatrice: i figli, i nipoti e persino personaggi pubblici come Ferruccio de Bortoli, Mario Monti, Geppi Cucciari, Fabio Fazio ed Enrico Mentana.
“Liliana è una testimone eccezionale perché è contemporaneamente di una semplicità disarmante e di una forza, determinazione e di un fil di ferro straordinario” afferma Enrico Mentana nel film.

L’idea del progetto
Questo documentario non è il primo progetto in cui Ruggero Gabbai collabora con Liliana Segre. Nel 1995 il regista aveva già filmato la senatrice durante le riprese del film collettivo Memoria in cui, grazie agli autori Liliana Picciotto e Marcello Pezzetti, ha raccolto le testimonianze di 97 sopravvissuti ad Auschwitz. «Io e Liliana abbiamo una conoscenza che parte da lontano – dichiara il regista durante l’intervista avvenuta nello studio di Forma International -. Da subito Liliana ci ha colpito per l’accuratezza della sua testimonianza, per la grande lucidità nell’esprimere i fatti storici senza tralasciare nessun particolare e analizzandone in maniera razionale l’impatto emotivo e psicologico».

Un anno fa, pensando a quanto dell’Archivio non fosse ancora stato utilizzato, Gabbai ha contattato la famiglia della senatrice per un nuovo progetto cinematografico che raccontasse i 30 anni successivi alla prima testimonianza. «Ho pensato fosse importante che la gente avesse l’opportunità di conoscere la storia di Liliana Segre e di scoprire la donna dietro al personaggio pubblico che tutti conoscono – afferma -.Per me era importante rimuovere l’aspetto iconografico e simbolico di Liliana e mostrarne un aspetto più intimo: una persona con molto da raccontare rispetto a un’esperienza di vita così unica».

Per le riprese, Gabbai ha concordato con la protagonista una lista di episodi significativi dal punto di vista storico. Tra le location utilizzate vi sono Pesaro e la sua sinagoga, il Senato di Roma, il Binario 21, il Cimitero Monumentale e persino l’atrio del civico 55 di corso Magenta a Milano, da cui Segre è stata deportata all’età di 13 anni.
«Vederla tornare a casa è stata una scena toccante e personale della vita di Liliana che ho cercato di realizzare quasi in punta di piedi – continua -. Liliana entra, si guarda attorno e osserva le finestre di casa sua che non si sono più aperte da allora».
Nel documentario è presente anche il racconto del ritorno a casa della piccola Liliana negli anni del dopoguerra e di come il suo custode non l’avesse riconosciuta per quanto era cambiata.
«In Liliana, come in altri miei film, il luogo è fondamentale rispetto al racconto della testimone ed è in grado di rappresentare la narrazione storica quasi al pari delle parole».
Segre non ha mai più voluto tornare ad Auschwitz ed ha scelto come location principale dell’intervista la casa della figlia Federica Belli Paci, anche lei presente nel documentario.
“Ho conosciuto la storia di mia madre quando avevo 13 anni, la stessa età che lei aveva quando è stata deportata – affermato la donna nel film -. Una sera ha iniziato a leggermi un diario che lei aveva scritto riportando in maniera dettagliata il suo racconto della deportazione. È proprio attraverso la lettura di queste pagine che credo che il trauma sia passato a me e non sono mai stata più la stessa”.

 

Il trauma delle seconde generazioni
Uno dei temi principali del film è il trauma delle seconde generazioni. È un trauma fatto di silenzi, di cose non dette, provocato dal fatto che molti dei sopravvissuti tornati dai campi hanno evitato di parlare ai propri cari di ciò che avevano vissuto, in modo da risparmiare loro questa sofferenza. “Ai figli lasci un’eredità terribile, talmente pesante che, se li ami, devi far sì che pensino ad altro. Spesso rispondi loro ‘te lo dirò quando sarai più grande’ ma la verità è che non dovrebbero mai essere così grandi da ascoltare queste storie”, racconta Segre nel documentario.
«Spesso non ci accorgiamo però che questa protezione è un’arma a doppio taglio perché è proprio nell’oscurità, nel non conoscere la verità, che il trauma nasce – spiega Gabbai -. Dai figli di Nedo Fiano a quelli di Goti Bauer e di Liliana: il trauma è passato in tutte le seconde generazioni di ebrei che ho conosciuto».

 

Dal passato al presente e al futuro
Gabbai, che al momento sta lavorando a un documentario sulle donne dissidenti iraniane che combattono il regime dei mullah, è convinto che sia di fondamentale importanza parlare alle future generazioni.
«Tutte le famiglie che hanno vissuto la violenza della guerra portano un trauma mai sopito. A volte si riesce a disinnescare questo circolo vizioso in modo da non tramandarlo ai propri figli, ma nel caso della Shoah è impossibile uscirne. Ci si può solo convivere» spiega il regista.
«La tematica del trauma è estremamente attuale e urgente rispetto ai conflitti in atto. Penso al Medio Oriente ma anche all’Ucraina: molti bambini rimangono orfani di guerra, i genitori vedono tornare a casa i corpi dei loro figli, nessuna generazione è risparmiata da questo dolore – continua il regista -. Il rischio di creare una generazione che non riesce a risolvere il trauma va scongiurato. L’arte e il cinema possono essere utili strumenti di decodificazione, lettura e interpretazione per farci capire i risvolti psicologici che stanno sempre di più diventando collettivi. Oggi più che mai è importante che se ne parli».