di Alberto Moshe Somekh
È citato da tutte le correnti dell’ebraismo contemporaneo e il suo nome ricorre in tutti i consessi ebraici, di qualsiasi orientamento religioso essi siano. Come mai questa unanimità intorno al nome di Rav Yossef (Joseph) Dov Soloveitchik? Per spiegarlo dobbiamo innanzitutto capire il contesto dentro cui questo grande pensatore visse e operò.
Se è vero che gli Ortodossi si distinguono da tutte le altre correnti dell’Ebraismo contemporaneo (Conservatives e Riformati), per il fatto di elevare il Talmud e lo Shulchan ‘Arukh a vademecum fondamentale in ogni manifestazione della vita, l’Ortodossia stessa presenta dei movimenti di pensiero diversificati al suo interno. I temi della discussione riguardano essenzialmente tre forme di rapporto: 1) con la cultura secolare; 2) con l’Ebraismo non ortodosso e 3) con lo Stato d’Israele e il sionismo in generale. Su posizioni di apertura si colloca la cosiddetta “Modern Orthodoxy”, un movimento vivo soprattutto in America, e che ha il suo centro intellettuale nella Yeshiva University di New York. Il nome stesso sintetizza il metodo tradizionale degli studi talmudici con la ricerca scientifica intesa in senso moderno: allo scopo di passare ogni problematica contemporanea al vaglio della tradizione in una prospettiva dinamica e positiva, si interrogano al tempo stesso gli antichi testi rabbinici riproponendoli come possibile chiave di lettura della realtà nel suo costante divenire. La cultura secolare diviene un referente obbligato di tale metodo, mentre con gli Ebrei non ortodossi deve essere ricercato un dialogo sui temi che lo consentono. Quanto alla realtà dello Stato d’Israele, pur non avendo questa un presupposto religioso, va considerata come una tappa comunque importante nel cammino verso la Redenzione.
L’esponente di spicco di questo movimento di pensiero è Rav Yossef (Joseph) Dov Soloveitchik, nato a Prozhan (Polonia) nel 1903 e scomparso negli Stati Uniti nel 1993. Suo nonno, Rav Chayim di Brisk, insegnava nella Yeshivah di Volozhin, la grande scuola talmudica simbolo del modello lituano. Il padre Moshe fu il suo principale “istruttore” negli studi ebraici, mentre più tardi avrebbe ricevuto un’educazione secolare tramite insegnanti privati. A ventidue anni si iscrive all’Università di Berlino, dove studia matematica e poi filosofia. Fu fortemente influenzato dalla scuola neo-kantiana rappresentata da Hermann Cohen, dedicando al pensiero di questo autore la sua tesi dottorale (1931). L’anno successivo emigrò a Boston, dove assunse la direzione spirituale della Comunità Ortodossa e fondò il liceo Maimonides, la prima scuola ebraica a tempo pieno degli USA, cercando di risvegliare l’attenzione sui valori ebraici tradizionali messi in rapporto con la vita moderna. Nel 1941, dopo la morte del padre, ne ereditò l’incarico di professore di Talmud al Rabbi Isaac Elhanan Theological Seminary affiliato alla Yeshiva University di New York e di Filosofia Ebraica alla stessa Università. Si affermò come figura leader dell’intero Ebraismo Ortodosso Americano in qualità di Presidente della Commissione Halakhica del Rabbinical Council of America e del Movimento Mizrachi d’oltreoceano. Le sue lezioni erano seguite da un vastissimo uditorio di studenti ed ancora oggi egli è considerato alla Yeshiva University il “Rav” per antonomasia.
Fedele alla tradizione di Brisk, cui aderisce la sua famiglia, ha pubblicato personalmente pochissimo. Diversi saggi, tratti dalle sue lezioni e conferenze, sono stati successivamente dati alle stampe dagli allievi: uno di questi è stato tradotto in italiano (Riflessioni sull’Ebraismo, Giuntina, 1998). Il primo suo scritto in ordine cronologico è Sacred and Profane in World Perspective (Sacro e profano nella prospettiva universale, 1945), la base del suo pensiero religioso. Lontano dall’assicurare un rifugio contro l’angoscia del destino, la religione è continua fonte di problemi e interrogazione, in quanto essa rivela all’uomo l’insolubilità del mistero dell’universo. “La Qedushah non è un paradiso, ma un paradosso… Di più, se la religione si corrompe con l’immoralità, essa volta faccia e diviene una forza negativa e distruttrice”, scriveva. La Halakhah, al servizio della Qedushah, è dunque sforzo continuo, sfida incessantemente volta alla santificazione del profano.
Fra le opere pubblicate dall’autore originariamente in inglese si segnala The Lonely Man of Faith (Il credente solitario, 1965), redatto nell’ambito di un progetto universitario per lo studio degli atteggiamenti religiosi di fronte ai problemi psicologici. «L’intelletto – sostiene Rav Soloveitchik -, non può fissare la via sulla quale procede l’uomo di fede. Può solo descriverla a posteriori: l’intelletto segue, non precede, il credente». Troviamo in questo testo la sua dottrina dell’uomo. Rav Soloveitchik rileva l’esistenza di un duplice racconto della Creazione all’inizio della Genesi. Nel primo capitolo l’uomo è lo scopo finale dell’opera, mentre nel secondo egli è collocato al centro. Questa duplicità, che in età moderna ha portato alcuni a mettere in dubbio l’unità stessa del racconto biblico, è spiegata dal Rav in modo coerente. La Torah vuol mettere in luce che la stessa condizione umana nasce ambivalente. Da un lato l’uomo è la creatura più potente, ma dall’altro egli si ritrova sgomento dinanzi alla solitudine del suo ruolo, che è per lui fonte di una crisi esistenziale profonda.
Confrontation (1964) è la presa di posizione adottata per molti anni dall’Ortodossia americana sul dialogo interconfessionale all’indomani del Concilio Vaticano II. La tesi di fondo è che ogni comunità di fede in quanto tale ha la sua individualità che non può essere messa in discussione.
L’uomo non merita il dialogo finché non è arrivato ad un confronto personale con se stesso (gli Ebrei) da un lato, e finché non rinuncia ad ogni velleità di sopraffazione culturale (i Cristiani) dall’altro. Ma ciò risulta di fatto impossibile, dal momento che ogni religione ha la pretesa di essere depositaria della Verità. In questo senso è disonesto non solo rinunciare ai propri principi, ma anche chiedere all’altro di derogare ai suoi. Soltanto sul piano pratico e sociale, dunque, ma non su quello dottrinale, si può pensare che le Comunità Religiose sviluppino un’azione comune.
Il saggio più importante di Rav Soloveitchik resta comunque Ish ha-Halakhah (Homo halakhicus, 1944), scritto in ebraico, in cui delinea, forse per la prima volta nella storia, una filosofia della Halakhah come il prodotto più originale dell’Ebraismo non solo sul piano giuridico-ritualistico, ma anche intellettuale. Dato un Testo (la Torah) rivelato personalmente da D-o e pertanto immutabile e insostituibile, esso viene consegnato all’uomo una volta per tutte perché lo reinterpreti senza che neppure D-o stesso possa da allora in poi essere richiamato in causa. La Halakhah è dunque partecipazione umana all’iniziativa Divina e come tale presenta due aspetti contrapposti: da un lato cristallizzazione, dall’altro audacia intellettuale. L’homo halachicus ha contemporaneamente i caratteri dell’uomo religioso da un lato, e dell’intellettuale-scienziato dall’altro. In quanto uomo di fede deve prendere atto dell’inconoscibilità ultima del mistero dell’Universo. In quanto scienziato, è chiamato al compito di ridurre al massimo il margine di ciò che è sconosciuto. Qui emerge il rapporto di Rav Soloveitchik con la scuola filosofica neo-kantiana. L’homo halachicus «non desidera affatto… conoscere la natura per se stessa, bensì si forgia un ritratto a priori ed una forma ideale e la compara con il mondo reale. Il suo approccio alla realtà non ha altro scopo che stabilire un rapporto fra la sua creazione ideale a priori e la realtà immediata». Le leggi e fenomeni della natura gli servono per confrontarli con leggi e principi precisi la cui origine risale alla rivelazione sul Sinai, così come il matematico osserva lo spazio in base a dati geometrici ideali. L’homo halachicus soffre certamente per le sue intime contraddizioni fra aspirazione alla ricerca e consapevolezza dei suoi limiti. Ma lungi dall’abbatterlo, tali contraddizioni creano in lui una figura profondamente positiva, una «personalità fortemente ancorata alla santità… di un livello assai superiore a quello di una coscienza religiosa ordinaria».