Quest’anno ricorre il 70° anniversario dell’inizio delle deportazioni naziste dall’Italia. Dall’8 settembre 1943, data dell’armistizio, l’Italia si ritrovò sotto occupazione tedesca, e gli ebrei oggetto della caccia nazista, città per città, casa per casa.
Alcuni entrarono nella Resistenza, alcuni riuscirono a fuggire in Svizzera, alcuni altri riuscirono a trovare rifugio qua e là, dove fu possibile trovare. Ma molti, moltissimi, furono catturati, incarcerati e deportati ad Auschwitz. Fra questi anche il milanese Gino Emanuele Neppi.
Dipendente del Comune come medico “di riparto”, membro attivo della Comunità di Milano, come consigliere – ma anche come mohel, ricordano alcuni – Neppi fu arrestato nel novembre del 1943 e deportato ad Auschwitz un mese dopo. Da lì non fece più ritorno.
La figura di Neppi merita di essere ricordata fra le migliaia di altre che subirono la medesima terribile sorte, anche per l’attività benefica che fra il 1940 e il 1943 svolse a Milano a favore degli ebrei stranieri e di quelli milanesi messi in difficoltà dalle restrizioni imposte dalla leggi razziali (Ma su tutto questo si veda l’articolo di Andrea Finzi) Proprio per questa sua attività oggi l’Associazione Medica Ebraica Italiana e la Fondazione CDEC hanno deciso di ricordare la figura di Neppi con un incontro dedicato a “Medici ebrei a Milano durante le leggi razziste: Gino Neppi un esempio di impegno civile e solidarietà”. A ricordare l’opera di Neppi, ci saranno la storica della Shoah, Liliana Picciotto, Ugo Garbarini, Andrea Finzi, Giorgio Mortara (moderatore della serata), e la nipote di Neppi, Carla Neppi Sadun che ripercorrerà le memorie famigliari.
L’iniziativa, in programma per giovedì 18 aprile, ha ottenuto il patrocinio dell’Associazione medica della Provincia di Milano e del Comune di Milano. Proprio il Comune, che ospiterà la serata presso la Sala Alessi di Palazzo Marino, ricorderà l’attività benefica di Neppi a Milano con un attestato di riconoscimento che verrà consegnato per l’occasione a Carla Neppi Sadun.
Medici ebrei a Milano durante le leggi razziste: Gino Neppi un esempio di impegno civile e solidarietà
Giovedì 18 aprile, ore 18.00
Palazzo Marino – Sala Alessi
Milano
Informazioni:
Fondazione CDEC
tel. 02316338
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Quella di Gino Neppi e dell’ambulatorio della Comunità Israelitica di Milano fra il 1939 e il 1943 è una storia di solidarietà, coraggio, pragmatismo ed efficienza, uno straordinario incontro delle due anime, ebraica e milanese, che si dipana in uno dei periodi più oscuri della storia della città e del paese.
Gino Emanuele Neppi , nato a Ferrara nel 1890, laureato giovanissimo in medicina , si era poi specializzato in ginecologia. Dopo aver lavorato come medico per i Comuni di Fiorenzuola e Vigevano,dal 1932 era alle dipendenze del Comune di Milano come “medico di riparto”, cioè responsabile di una condotta nella periferica zona di Baggio; da questo incarico venne “dispensato” con delibera del 30.12.1938 in ottemperanza del regio decreto-legge del 17.11.1938 N° 1728 riguardante i “provvedimenti a difesa della razza italiana” ma, essendo stato combattente della Grande Guerra, gli venne tuttavia consentito di proseguire l’attività di medico libero professionista.
Eletto consigliere della Comunità Israelitica di Milano nel 1938, Neppi viveva quotidianamente il duplice dramma degli ebrei milanesi colpiti dalle leggi razziali del 5 settembre 1938 e di quello degli ebrei stranieri profughi dai Paesi già dominati dal regime hitleriano o prossimi a venirne invasi, che in numero crescente giungevano in Italia – soprattutto a Milano – alla ricerca di sicurezza più o meno duratura, molti di loro in attesa di partire per le Americhe o per la Palestina mandataria. Nonostante che le leggi del 1938 ne vietassero l’accoglienza e stabilissero anzi l’espulsione degli ebrei stranieri, nel 1939 ben 5000 profughi entrarono in Italia con un “visto di transito” , un escamotage formale in deroga alle disposizioni della “Demorazza” che, incidentalmente, avrebbe potuto favorire le Compagnie di navigazione e le attività alberghiere italiane. A Milano nel 1939 vivevano in condizioni spesso precarie, alloggiati in pensioni, appartamenti di subaffitto o ospitati da correligionari, circa 2000 profughi che, sommati agli ebrei stranieri già da tempo residenti , portavano la quota di ebrei privi della cittadinanza italiana a circa un terzo del totale della popolazione ebraica della città. La Comunità di Milano, come l’Unione delle Comunità Israelitiche a livello nazionale , tentò di far fronte a questa emergenza istituendo comitati di assistenza attraverso i quali distribuire denaro e aiuti materiali raccolti in Italia o fatti pervenire dalle grandi istituzioni ebraiche internazionali. Fra il novembre 1938 e l’agosto 1939 fu attivo il “Comasebit” (Comitato Assistenza Ebraica Italiana) , fondato dal Comandante Federico Jarach ; dopo la sua chiusura , su ordine della polizia , dal 1° dicembre 1939 divenne operativa a livello nazionale la DelAsEm (Delegazione Assistenza Migranti ebrei), sotto la cui egida gli uffici milanesi continuarono ad operare. La prima sede per l’assistenza ai profughi, inclusa una consulenza medica offerta da Neppi, era situata in tre angusti locali in zona centrale, ma venne spostata nel 1939 in un ampio appartamento in viale Vittorio Veneto 20; qui fu istituito uno specifico “ufficio assistenza” che segnalava al medico-consigliere comunitario le persone bisognose di cure.
A questo punto , di fronte alle crescenti richieste di assistenza sanitaria, Gino Neppi, insieme al giovane collega Marcello Cantoni che lo aveva affiancato, si rivolse all’Ufficiale Sanitario del Comune di Milano, prof Carlo Alberto Ragazzi, già suo direttore istituzionale, il quale aveva sempre mantenuto un atteggiamento di grande amicizia e solidarietà con i colleghi ebrei espulsi dalla professione. Il prof Ragazzi riuscì senza difficoltà ad ottenere l’approvazione del podestà di Milano, conte Giangiacomo Gallarati Scotti, per mettere a disposizione dei medici della Comunità Israelitica, nelle ore pomeridiane, i locali della condotta medica comunale di via Panfilo Castaldi 27 – parallela a viale Vittorio Veneto – dove venivano visitati al mattino gli allievi delle scuole primarie ed i poveri assistiti gratuitamente dal Comune. Il 20 aprile 1940, solo quaranta giorni prima dell’ingresso in guerra dell’Italia ed in totale inosservanza delle disposizioni di espulsione per gli ebrei stranieri, il prof Ragazzi consegnò al dott Neppi i timbri con la dicitura “COMUNE DI MILANO Ambulatorio per la Comunità Israelitica DI MILANO” in una cerimonia cui parteciparono le istituzioni comunitarie , il Rabbino Capo Castelbolognesi e anche alcuni funzionari del Comune.
“Milan col coeur in man” di certo, ma non solo: anche intelligente pragmatismo meneghino in linea con la politica sanitaria nazionale che, soprattutto nei confronti della cura e della prevenzione della tubercolosi aveva ottenuto negli Anni Trenta risultati eccellenti: non poteva quindi non preoccupare le autorità sanitarie milanesi la presenza di un numero cospicuo di profughi alloggiati in locali sovraffollati e malsani, con un’alta percentuale di malati e possibile fonte di focolai epidemici – come già emergeva dai dati presentati da Neppi. La soluzione trovata di comune accordo si prestava quindi ad offrire, oltre all’ assistenza medica, un valido strumento di controllo e prevenzione.
Da quel giorno fra le ore 15 e le 18 per sei giorni settimanali vennero visitate all’ambulatorio una media di 70-80 persone, prevalentemente ebrei profughi ma anche ebrei milanesi bisognosi; vi venivano inviati dai medici che periodicamente li controllavano anche i piccoli della “Mensa dei bambini” aperta con fondi propri dall’ing Israel Kalk nell’ottobre del 1939 in via Guicciardini 10, situata nella zona ove risiedeva gran parte degli ebrei provenienti dall’Europa Centrale. Con l’impegno in continua crescita e la disponibilità di due ampi locali di visita, Neppi e Cantoni si rivolsero ad altri colleghi medici ebrei espulsi dagli ospedali che vennero ad affiancarli nella gestione di quello che divenne, in anticipo di decenni, un modello di ambulatorio polispecialistico. Oltre a Neppi, responsabile e ginecologo, e a Cantoni, vicedirettore e pediatra, ebbero un ruolo fondamentale due internisti, Oscar Benarojo, già assistente del Policlinico, e Ephraim Chaimson che svolse anche la funzione di interprete in tedesco e yiddish. Vi era poi un’infermiera- fisioterapista, Elena Reichmann, che parlava bene anche lei il tedesco.
A questo nucleo di medici si aggiunse poi una serie di specialisti esterni che, oltre a visitare i pazienti inviati da via Castaldi nei propri studi o in alcune cliniche cui avevano accesso in deroga ai decreti, si recavano due volte alla settimana all’ ambulatorio a visitare i pazienti. Fra essi il prof Giorgio Segré, dermatologo, il dott Aldo Fiorentino, ortopedico e reumatologo, il già per altri versi famoso dott Nathan Cassuto, oculista proveniente da Firenze, il prof Marcello Lusena già primario a Niguarda che si occupava delle urgenze cardiologiche. Per i problemi chirurgici erano consultati il prof Benedetto Formiggini dell’ospedale pediatrico Buzzi, il dott Veicstein ed il notissimo prof Mario Donati che, cacciato dall’Università, operava in un poliambulatorio al Ticinese e alla Clinica Principessa Jolanda della Croce Rossa. Sulla base degli accordi con le autorità, i farmaci per i pazienti erano distribuiti gratuitamente dalle farmacie comunali e ricoveri negli ospedali cittadini, quando ritenuti indispensabili dai medici dell’ambulatorio, venivano richiesti agli ex colleghi con i quali i rapporti rimanevano ottimi e continui; i pazienti erano inviati a Niguarda, al Policlinico ed in altri ospedali con un regolare modulo di richiesta di ricovero al quale Neppi o Cantoni allegavano una scrupolosa cartella clinica. Anche i costi delle degenze erano totalmente a carico del Comune perché questi malati erano equiparati ai poveri assistiti dalle istituzioni civiche. Ogni mese veniva inviato all’ufficiale sanitario del Comune un rapporto dettagliato sulle visite effettuate, sulle patologie diagnosticate, le terapie prescritte, i ricoveri effettuati. I fondi per l’ambulatorio, oltre che dalle donazioni milanesi, erano fatti pervenire principalmente dall’American Joint Distribution Committee attraverso la Svizzera a mezzo di persone fidate.
L’attività dell’ambulatorio proseguì regolarmente per quasi tre anni, pur tra quotidiane difficoltà. Nella notte del 12 febbraio 1943 un violento bombardamento colpì la zona attorno alla Stazione Centrale e rase al suolo lo stabile di via Castaldi 27. Di nuovo intervenne il prof Ragazzi che, dopo due settimane, fece riaprire gli ambulatori per i poveri del Comune e per gli ebrei bisognosi in uno dei due caselli dell’ex Dazio di porta Venezia. L’attività riprese regolarmente ed ai medici veterani si aggiunsero altri giovani colleghi fra cui il pneumologo Camillo Sacerdoti. Ma con l’aumentare dell’offensiva aerea alleata sulle città italiane, iniziò lo sfollamento di una crescente proporzione di milanesi, inclusi gli ebrei residenti e immigrati, così che le visite si ridussero progressivamente e anche molti dei medici, fra cui Neppi e Cantoni, lasciarono la città con le loro famiglie.
Dopo l’8 settembre, con l’avvio della caccia agli ebrei da parte degli occupanti tedeschi e dei loro servi repubblichini, l’ambulatorio israelitico venne chiuso mentre proseguì ancora per un anno l’attività dell’ambulatorio comunale. Le cartelle cliniche rimasero però al loro posto, custodite dai colleghi medici “ariani” che le riconsegnarono dopo la Liberazione a Cantoni quando egli riprese le attività assistenziali per i reduci dai campi di sterminio.
Gino Neppi, incurante del pericolo reso più grave dal fatto di essere noto come consigliere della Comunità, continuò a rientrare a Milano per visitare i pazienti nel suo studio privato; e fu qui, proprio mentre prestava le sue cure ad una paziente, che venne catturato il 6 novembre 1943, portato al carcere di S.Vittore e quindi deportato ad Auschwitz con il convoglio del 6 dicembre 1943. Morì in luogo e data ignoti, dopo il settembre 1944.
Professionista esperto e scrupoloso , ottimo organizzatore, Gino Neppi diresse con lucido altruismo e “spirito di servizio” la straordinaria opera di assistenza sanitaria da lui avviata, conscio ma incurante del pericolo che andava aumentando con il progredire degli eventi , fino a restarne sommerso. La sua opera ed il suo sacrificio sono un esempio luminoso per la Comunità Ebraica, per i medici e per la città di Milano.
Andrea Finzi