di Davide Foa
Ricordare la Shoah, oggi, a settant’anni dall’apertura del campo di Auschwitz, non è solo un dovere morale ma anche e soprattutto una sfida. Più passano gli anni, maggiore è il rischio che il tutto venga banalizzato, tacciato come noioso o peggio ancora strumentalizzato. Ecco perché ricordare, oggi, è soprattutto una “sfida”, che deve puntare al coinvolgimento dello spettatore, chiunque esso sia.
C’è chi, quest’anno, la sfida l’ha già ampiamente superata: stiamo parlando del documentario “I figli della Shoah”, presentato giovedì 15 gennaio alla Sala Auditorium di Via San Barnaba. Il tutto organizzato, con grande successo a giudicare dal numero di spettatori, dall’associazione milanese “Nestore”, che da anni organizza e promuove attività rivolgendosi soprattutto a chi deve affrontare la fase di transizione al pensionamento.
Israel Moscati e Beppe Tufarulo, rispettivamente sceneggiatore e regista del documentario, seguono la proiezione, accompagnati da Mino Chamla, docente di filosofia presso il liceo della scuola ebraica di Milano.
“Un’ Associazione di Promozione Sociale come la nostra, deve affondare le sue radici nel ricordo di ciò che è stato, perché questo non si ripeta per le generazioni successive”, afferma la vicepresidente di Nestore, Fiorella Nahum, introducendo l’evento, “la Storia è una grandissima maestra di vita: ricordare la Shoah è importante per evitare ricadute e permetterci di continuare a guardare con fiducia ad un futuro di pace per chi verrà dopo di noi. Il nostro motto? Progetto di Vita, per andare avanti in modo costruttivo, continuare e , se necessario, ricominciare”.
Il documentario si inserisce nella cornice di un viaggio intrapreso da Israel Moscati che, tra Roma, Gerusalemme e Parigi, si propone di intervistare i figli dei deportati, i figli della Shoah. Tutto inizia e tutto finisce nella scuola elementare ebraica Vittorio Polacco di Roma, così da trasmettere un chiaro messaggio di continuità.
L’obiettivo di Israel non è tanto quello di ricostruire la storia delle famiglie degli intervistati. Il punto centrale è piuttosto il trauma di chi la Shoah non l’ha vissuta, e tuttavia ne è stato indirettamente vittima.
Ecco la sfida e il nuovo approccio nell’affrontare il tema della Shoah. Israel, figlio della Shoah, cerca nel suo viaggio delle risposte da chi si è trovato e si trova tuttora nella sua stessa situazione. Tutti gli intervistati, seppur non toccati direttamente dalla tragedia dell’olocausto, “hanno assorbito il trauma dei loro genitori”, come spiega la psicoterapeuta Dina Wardi all’interno del filmato.
Viviana, figlia di deportati intervistata a Gerusalemme, afferma: “La mia infanzia non è stata felice, ho conosciuto la felicità solo grazie all’aiuto della terapia, che mi ha aiutato ad elaborare e a capire l’influenza della Shoah su di me. Solo in quel momento ho potuto sorridere veramente”
La causa di questa sofferenza si può ritrovare, nella maggior parte dei casi, nella chiusura dei genitori deportati di fronte alle domande dei figli. Questi ultimi finirono così per chiudersi in sé stessi, anche perché spesso i genitori non si limitavano al silenzio ma intervenivano con dure risposte, mettendo a tacere le domande e soffocando il tormento dei propri figli. “L’uomo non è un computer: se si difende da determinati sentimenti, elimina anche gli altri”, spiega Dina Wardi.
Insomma, se si vuole sorridere, bisogna prima di tutto saper affrontare le sofferenze. I traumi possono mostrarsi sotto varie forme, ma la matrice rimane la stessa.
Colpisce la testimonianza di un intervistato da Parigi, “da quando avevo 3 anni e per tutta l’infanzia ho avuto paura di prendere il treno, solo dopo ho capito il perché. Mio padre, tornato dai campi, ci ha trasmesso la sua sofferenza”.
Terminata la proiezione del documentario, segue un dibattito in cui intervengono Chamla, Tufarulo e Moscati. “Quando Israel, presentandomi il suo progetto, mi ha parlato di Shoah ammetto di essermi bloccato”, afferma il regista Tufarulo, “ non sapevo che contributo avrei potuto dare a questa forte esigenza di Israel. L’idea è stata quindi quella di seguire e far parlare le persone: la telecamera doveva essere un semplice spettatore”.
Moscati cerca quindi di rispondere alla domanda di Chamla sul perché di questo documentario. “A 40 anni il mio dolore è esploso in una nevrosi che sono riuscito a tirar fuori solo grazie all’aiuto di un’analista, a cui devo la mia vita di adesso. Mi sono reso conto che ero come mio padre, ero arrivato al punto in cui i miei figli mi facevano delle domande e io non rispondevo”.
Questo silenzio ha certamente coinvolto un gran numero di sopravvissuti, che solo molti anni dopo hanno deciso di raccontare ciò che avevano vissuto.
“Non dimentichiamoci che fino a 30 anni fa, pochissimi parlavano di Shoah”, ricorda Chamla, “persino all’interno della scuola ebraica il tema era poco affrontato. Inoltre, per molti anni, quando si parlava della barbarie nazi-fascista, si parlava pochissimo dello sterminio degli ebrei. Solo dopo, quando sono scoppiati fenomeni di reazione a tutto questo, gli ebrei hanno recuperato la memoria pubblica, suscitando per questo l’offesa di altri.”
Secondo Chamla la Shoah è unica, “per ragioni complesse ma allo stesso tempo evidenti. “Un’unicità ancora non compresa dall’Europa”, i cui cittadini sono spesso autori di fraintendimenti e strumentalizzazioni.