di Anna Lesnevskaya
Il Vaticano e Israele, le differenti strategie diplomatiche degli ultimi tre Papi, Wojtila, Ratzinger e Bergoglio. Passi avanti, intoppi, fraintendimenti: la difficile relazione tra Vaticano, ebraismo, Stato d’Israele. Ne parliamo con lo storico Sergio Minerbi
«Sono convinto che nella diplomazia sia importante dire la verità, possibilmente nel momento opportuno e non in modo offensivo. Io l’ho sempre fatto e non mi sono mai pentito». È un principio che Sergio Minerbi non tradisce nemmeno quando deve parlare di un Papa. Lo dimostra dando giudizi piuttosto sferzanti, mentre lo intervistiamo a margine della Festa del Libro Ebraico a Ferrara. L’ex ambasciatore israeliano ed ex senior lecturer all’Università ebraica di Gerusalemme è venuto in Italia per presentare il suo libro sulla storia della sua famiglia, I Minerbi. Una famiglia ebraica ferrarese (Salomone Belforte & C., Livorno, 2015).
Di origini ferraresi, Minerbi però è nato a Roma nel 1929, sopravvivendo alla Shoah grazie al rifugio trovato in un istituto religioso. Eppure su Pio XII e lo sterminio degli ebrei l’ex diplomatico parla senza mezza termini: «È stato terribile, nel momento più triste della storia ebraica. Non solo non ha fatto niente per salvare gli ebrei, ma si è associato ai nazisti».
Probabilmente proprio durante i sei mesi passati al San Leone Magno di Roma, Minerbi ha iniziato a riflettere sui rapporti tra il cattolicesimo e l’ebraismo. Questione che tanti decenni dopo approfondirà ne Il Vaticano, la Terra Santa e il Sionismo (Bompiani, Milano, 1988). Opera scritta dalle posizioni di un fervente sionista – nel 1947 Minerbi emigra nell’allora Palestina – che cerca però di affrontare il tema con più obiettività e fondatezza possibile.
Se l’analisi proposta nel volume arriva fino al periodo del mandato britannico della Palestina, abbiamo chiesto invece all’ex diplomatico di dare una sua lettura dello stato attuale dei rapporti tra la Chiesa e Israele, cui ha dedicato, nel 2015, il volume Una relazione difficile, Vaticano, ebraismo, Israele (Bonanno Editore).
Quando a gennaio papa Francesco ha visitato la Sinagoga di Roma, lei è stato piuttosto scettico sul significato di questo gesto. Perché?
Abbiamo avuto finora tre Papi in Sinagoga. Di questi tre Papi, quello che ho apprezzato di più è stato Ratzinger. Mi è sembrato, in una serie di occasioni, pronto a cogliere la diversità positiva dell’ebraismo. E questo è molto importante. L’esempio di Benedetto XVI mi dice che se c’è la volontà, c’è anche la possibilità di percorrere un cammino diverso, un cammino che non sia apertamente antisemita. Per fare il Papa ci vogliono alcune doti fondamentali. Lui ce le aveva. Ma è stato un’eccezione.
Di quali doti sta parlando?
La volontà di comprendere che ci sono anche altre verità. La volontà di accettare la diversità. Tutto questo manca nell’attuale pontefice. La prima predica di Bergoglio, da Papa, è stata decisamente antisemita. Lui vede tutto sub-specie Vangelo. Ora, quando si è Papa, bisognerebbe cercare di elevarsi al di sopra. C’è stata la volontà da parte di Francesco di cambiare un po’ rotta, nel prosieguo del suo pontificato. C’è stata la visita in Sinagoga, che è un atto di simpatia, un atto di amicizia. Non è abbastanza, ma sempre meglio di niente.
E la preghiera silenziosa di Bergoglio ad Auschwitz non l’ha colpita?
Penso piuttosto a Giovanni Paolo II che ha voluto esaltare in particolare le vittime cattoliche ad Auschwitz, il che, secondo me, è quanto meno uno sbaglio, se non di più. In quanto Auschwitz è purtroppo il “non plus ultra” della persecuzione antisemita. Auschwitz ha rappresentato la volontà di distruggere completamente l’ebraismo europeo e questo non va mai dimenticato.
Secondo lei la minoranza cristiana in Terra Santa si sente accerchiata e minacciata?
Questa è una falsità diffusa dai cattolici. Non sono accerchiati da nessuno. Il governo israeliano li rispetta in pieno. Quindi sono tutte scuse. Loro vogliono continuare la loro politica come hanno sempre fatto, appena moderata da qualche riflessione.
Come vorrebbe che si evolvessero i rapporti tra il Vaticano e Israele?
A me interessa che ci siano delle relazioni normali fra Israele e la Chiesa. Avrei voluto vedere una continuazione di “Nostra aetate” (la dichiarazione del Consiglio Vaticano II del 1965 che rivede accuse e pregiudizio cattolico, ndr). Avrei sperato anche in una ripetizione, perché repetita iuvant. Ma non c’è stata. Non possono dimenticare quello che hanno detto, anche perché è stato voluto da un Papa. Ma certamente pensano che questo avvicinamento sia più che sufficiente per il momento.
I rapporti tra Vaticano e Israele oggi sono a un punto morto?
No, niente è morto. Però forse anche Israele potrebbe fare di più. Dopo la visita del primo ministro israeliano in Vaticano di tre anni fa (Benjamin Netanyahu ha incontrato Papa Francesco nel 2013, ndr), Israele avrebbe potuto cercare di fare alcuni passi avanti. Ha scelto di non farli.
Quali le principali sfide per la diplomazia israeliana riguardo al Vaticano?
Non do consigli sui media al mio governo, anche perché tanto non li segue.
Si potrebbe migliorare lo stato attuale dei rapporti?
Certo, si può migliorare. Da ambo le parti. Inshallah.
La famiglia Minerbi
Ci sono voluti trent’anni di ricerche per raccogliere tutte le storie, notizie e fatti che hanno caratterizzato secoli di vita familiare. Questo materiale è stato pazientemente e tenacemente raccolto da Sergio Minerbi in un libro a metà tra storia, narrativa e autobiografia, I Minerbi. Una famiglia ebraica ferrarese (Salomone Belforte & C., Livorno, 2015), presentato dall’autore sempre alla Festa del Libro Ebraico a Ferrara.
“Sempre corretti negli affari e pronti ai sacrifici per l’Italia, che invece con le Leggi razziali li abbandonò e li perseguitò, i Minerbi sono rimasti una famiglia alla quale abbiamo l’onore di appartenere”, si dice nell’epilogo del libro. “Abbiamo l’onore di appartenere”, appunto. Il plurale non è casuale, visto che l’autore si sente parte di un insieme inscindibile, una collettività, una famiglia con i cui membri continua a dialogare anche oggi. Racconta i loro fatti, li giudica, si associa alle loro azioni o ne prende le distanze.
Così, parlando di Arrigo Minerbi, scultore preferito del D’Annunzio, Sergio Minerbi è intransigente: «Ha fatto una cosa per me inammissibile, nel momento del pericolo si è convertito». O ancora quando si imbatte nel caso dell’unico Minerbi che ha fatto bancarotta fraudolenta, scappando da Trieste a New York, è incerto se includerlo nel libro. Alla fine vince l’amore per la verità storica. In omaggio ai propri avi Minerbi non ha voluto censurare niente.
Nato a Roma nel 1929 dove ha vissuto le leggi razziali e poi ha visto l’arrivo della Brigata Ebraica, Minerbi nel ’47 emigra nell’allora Palestina, milita nei movimenti socialisti, vive nel kibbutz. Poi diventa diplomatico israeliano, professore universitario, autore di importanti pubblicazioni. È conosciuto soprattutto come esperto dei rapporti tra Vaticano e Israele.
«Ho avuto una storia personale del tutto particolare perché ero di madre polacca», racconta. Alla madre rimarrà sempre grato per avergli fatto conoscere l’ebraismo polacco, «che era all’epoca ricchissimo ed è stato distrutto dalla guerra». Il padre, ingegnere, patriota italiano e capitano dell’esercito nella Prima guerra mondiale, ha trasmesso a Minerbi non solo l’amore per la conoscenza («Mi ha dato una lezione importante: quella di studiare e studiare»), ma anche l’attaccamento all’ebraismo ferrarese di cui era impregnata la famiglia. «Gli ebrei hanno visto a Ferrara e nel ferrarese un addentellato importante del loro ebraismo, – dice Minerbi. – Poi le cose sono cambiate, e questo spirito oggi mi sembra svanito».