L'accademica israeliana Yuli Tamir, autrice di un libro sul nazionalismo

Yuli Tamir, il nazionalismo serve anche in democrazia

Personaggi e Storie

di Francesco Paolo La Bionda
Il nazionalismo ha un’accezione unicamente negativa per molte persone, alle quali il termine richiama alla mente solo violenza e sopraffazione. Un unico volto brutale, visto all’opera anche lo scorso cinque gennaio durante l’assalto dei sostenitori di Donald Trump al Congresso statunitense. Secondo Yael (Yuli) Tamir, accademica israeliana con un’importante carriera politica alle spalle, esiste invece un’alternativa: un nazionalismo liberale e democratico, in grado di contrastare le degenerazioni xenofobe e autoritarie.

La tesi è esposta nel suo ultimo libro “Le ragioni del nazionalismo”, Bocconi Editore (20,00 euro), in cui Tamir, già esponente del Partito Laburista israeliano e con due esperienze come Ministro, spiega con lucidità non solo la possibilità ma la necessità di un nazionalismo moderato per le democrazie moderne. Per le quali costituisce un antidoto al declino dello Stato-nazione, in grado di rimediare ai problemi creati dal globalismo e dal neoliberalismo e di evitare che i cittadini in cerca di risposte si affidino al campo reazionario.

Perché ritiene il nazionalismo un elemento importante per la nostra società?

La ragione per cui il nazionalismo è così importante è perché le persone hanno bisogno di un senso di appartenenza che le leghi a un’entità politica, non è sufficiente un contratto o un accordo sociale, serve qualcosa di più. Il nazionalismo si sta manifestando così chiaramente oggi perché il globalismo e il neoliberalismo hanno quasi spogliato lo Stato dai suoi poteri verso la collettività. La necessità di uno Stato funzionale, che stiamo provando intensamente in questi tempi di Covid-19, è uno dei mattoni indispensabili per la costruzione di un ordine mondiale alternativo. Quando lo Stato perde il suo ruolo, anche la sanità, l’istruzione, il welfare si indeboliscono e coloro che ne hanno necessità si sentono abbandonati.

Nel libro critica il ricorso al termine “populismo” per descrivere la forma di nazionalismo presente oggi in diversi Stati occidentali. Come si possono distinguere i due fenomeni?

Il populismo è un concetto confusionario secondo me, perché di solito viene impiegato per descrivere un movimento o un personaggio che non piace a chi lo adopera. Il nazionalismo invece ha tre principi chiave: appartenenza, responsabilità e continuità. Il senso di appartenenza verso il sistema e la sua continuità rendono il nazionalismo una forza così importante e costruttiva. È evidente che il nazionalismo può andare fuori controllo, portando ad esempio al fascismo o al nazismo, ma questo può accadere con qualunque ideologia. Dovremmo quindi mantenere il nazionalismo entro certi limiti, per questo parlo di un nazionalismo liberale e democratico, un nazionalismo che conferisca il potere di creare il sistema, il quale a sua volta ne possa poi limitare le degenerazioni.

Trump si è fatto portavoce delle recriminazioni popolari verso l’élite americana, pur appartenendovi lui stesso. Come è possibile?

Non credo si debba essere parte di un gruppo per esserne rappresentante, è sufficiente farsi portavoce delle sue idee. Ciò che la gente ha visto in Trump è stato un canale attraverso cui esprimere rabbia e odio, essendo lui sufficientemente brutale e violento. Se il trumpismo resterà una forza rilevante o meno, dipenderà molto da Biden e dai suoi epigoni all’estero, da quanto sapranno prendere sul serio le rivendicazioni a cui Trump ha dato voce e offrire delle soluzioni. Certamente non le sue, né presentate con i suoi modi volgari.

È troppo tardi per correggere la rotta del globalismo e rimediare ai problemi che ha causato?

Il modo in cui il mondo ha affrontato il Covid-19 è indicativo a questo riguardo. Ad esempio i paesi membri dell’Unione Europea, pur non volendo isolarsi, come prima misura hanno comunque chiuso le frontiere, nonostante Schengen e senza aspettare che l’Europa desse indicazioni. L’interesse nazionale è diventato un nazionalismo del vaccino: di fronte all’emergenza sanitaria, hanno preso le decisioni necessarie a proteggere la propria gente.

Nel libro, critica le aspirazioni separatiste delle regioni più ricche dell’Europa, come ad esempio la Catalogna o il Veneto, come una forma egoista di nazionalismo. La veridicità storica, o la sua mancanza, dietro a queste rivendicazioni non sono un criterio differenziante?

Dietro queste rivendicazioni c’è sempre un misto di ragioni culturali, economiche e politiche, in misura variabile. La differenza la fa il momento in cui si decide di volersi staccare dal resto del paese, che rivela quella preponderante. La Catalogna ad esempio aveva ottenuto ampia autonomia politica e culturale negli ultimi decenni; la motivazione dell’indipendentismo catalano è dunque principalmente economica.

Israele è al tempo stesso la patria di tutto il popolo ebraico e uno Stato con una minoranza di cittadini arabi.  Come si può declinare un nazionalismo democratico e liberale in questo contesto?

Israele è uno Stato creato esplicitamente per l’autodeterminazione del popolo ebraico. Non c’è dubbio che lo sia. La questione è piuttosto che tipo di Stato ebraico vogliamo che sia. Se vogliamo che sia uno Stato attento alle minoranze, che si prenda cura delle fasce più deboli della popolazione o se vogliamo invece che sia uno Stato nazionalista brutale, che rifiuti chiunque non sia ebreo. Soprattutto considerando che i palestinesi sono indigeni, non sono immigrati, non sono persone che hanno scelto di trasferirsi in Israele, ma che hanno vissuto lì per secoli. Credo che in quanto popolo indigeno gli si debbano riconoscere rispetto, un posto nella società e una possibilità di identificarsi come entità etnica e nazionale separata. Sempre entro i parametri di uno Stato ebraico.

Nel corso della sua carriera politica, e in particolare durante le esperienze di governo, avete provato ad applicare questa visione del nazionalismo?

Quando siamo stati al governo abbia tentato di ricucire il divario economico tra arabi ed ebrei; io sono anche stata l’unico Ministro di sempre a permettere agli arabi di esprimere le loro recriminazioni riguardo alla nascita dello Stato di Israele, di vivere il giorno dell’indipendenza israeliano come un giorno per loro di fallimento e catastrofe nazionale. Non dobbiamo raggiungere un accordo su come interpretare la storia, dobbiamo invece trovare un modo per vivere insieme nonostante le nostre differenze, senza cercare di sminuirle o di formulare un racconto nazionale unico.

Cosa ne pensa del libro di Yoram Hazony “Le virtù del nazionalismo”?

È un buon libro nel suo genere, ma è profondamente radicato nell’ambito religioso e io non condivido la sua idea di nazionalismo. È molto, molto più conservatore del mio e meno aperto alla moderazione del nazionalismo tramite valori umanitari, diritti umani e idee liberali. È molto facile convincere chi non condivide questi aspetti a diventare nazionalisti; la grande sfida, più difficile e meno foriera di popolarità, è persuadere chi non sarebbe per sua natura dalla parte del nazionalismo a prenderne in considerazione le virtù.