di Veronica Harari
La pratica della meditazione consapevole conosce un uso millenario anche nell’ebraismo. Tre le parole chiave: Hitbonenut, Hitbodedut, Kavanah. Per vivere pienamente nel “qui e ora”
Da una decina di anni si sente parlare sempre di più, in diversi ambiti, di Mindfulness, una pratica basata sulla meditazione consapevole, sull’essere attenti e presenti nel momento preciso che si sta vivendo, immersi nell’attimo, sperimentando tutte le emozioni senza pregiudizi e coltivando pensieri gentili come la gratitudine verso se stessi e gli altri. Di forte ispirazione orientale, la Mindfulness è arrivata in occidente attraverso il lavoro del biologo americano Jon Kabat Zinn (e in Italia grazie allo straordinario lavoro di Gherardo Amadei), che ne ha provato e fatto conoscere le enormi proprietà terapeutiche e il suo contributo a un maggiore benessere psico-fisico. L’idea alla base della Mindfulness è quella di vivere con intenzione e consapevolezza momento per momento nel “qui e ora”, lasciando da parte i pensieri che spesso ci distraggono dalle azioni che stiamo compiendo.
Ma perché parlare di Mindfulness e meditazione in un ambito ebraico? Che cosa hanno in comune la meditazione così come la conosciamo oggi, e l’ebraismo? In realtà molto più di quanto si pensi. Se infatti è vero che da sempre la pratica della meditazione viene collegata al buddismo e all’induismo, forse non tutti sanno che essa è presente anche nel mondo ebraico già dai tempi dei primi Chassidim. Come suggerisce il filosofo Philip Novak in uno dei suoi scritti, se le vere e proprie pratiche e tecniche della preghiera mistica ebraica sono difficili da accertare, accenni al riguardo si possono trovare negli antichi testi talmudici, nell’opera di Abraham Abulafia e di alcuni suoi contemporanei, nei cabalisti della scuola di Safed del XVI secolo, nell’opera di Isaac Luria e nei testi chassidici in generale. In particolare, fu il movimento cabalistico in Spagna, nel VI-VII secolo, ad attribuire sempre più importanza a due aspetti sostanziali, l’Hitbonenut e l’Hitbodedut. Il primo riguarda la capacità di focalizzarsi su se stessi e contiene al suo interno la parola “bina” che significa comprensione dei concetti divini tramite i quali si costruisce la propria struttura-edificio spirituale. Quando iniziamo a vibrare con questa struttura, esplorandone i dettagli giorno per giorno (di solito prima delle preghiere del mattino), allora stiamo praticando la meditazione ebraica. Interessante è sapere che i saggi del Talmud meditavano tre volte al giorno, un’ora prima della preghiera, un’altra durante, e infine un’ora dopo la preghiera, per poter scendere nell’aere mondano.
Il secondo termine fondante della meditazione ebraica è Hitbodedut – che ha al suo interno boded, solo -, che fa riferimento a un tipo di contemplazione profonda che rimanda al distacco dal mondo esterno, alla solitudine, al di là dell’attività dispersiva della mente, raggiunta grazie alla concentrazione. A queste parole chiave si aggiunge anche, nel mondo ebraico, quella di Kavanah, intenzione, che indica un tipo di preghiera basata sulla concentrazione e l’attenzione capace di indurre uno stato alterato e “superiore” di consapevolezza: dalla radice kivun, direzione, rimanda al centro della coscienza, all’intenzione e alla concentrazione del cuore, che devono accompagnare tutta la pratica della preghiera insieme alla meditazione.
Risulta quindi chiaro quanto questi tre aspetti, calati in una dimensione secolarizzata, si ritrovino oggi nella pratica della Mindfulness che da anni riscuote un interesse crescente in tutto il mondo – in Israele sono molte le associazioni dedicate alla divulgazione di questa pratica – per i suoi comprovati benefici sull’attenzione, autocontrollo, apprendimento, intelligenza emotiva e, più in generale, sul benessere psicofisico dell’individuo. In Israele per questo oggi si cerca di insegnare questa pratica costante anche ai bambini, che possono così interiorizzarla e farla propria per affrontare la vita, anche da adulti. In questo senso ci sembra interessante citare il libro di Eline Snel Calmo e attento come una ranocchia (Red Edizioni, 2015), tradotto anche in ebraico, che guida i bambini a coltivare il concetto dell’essere presenti, nel qui e ora: presenti con la mente, presenti con il cuore, presenti con il corpo e non più risucchiati da Instagram, app e videogiochi sui telefonini.
* Veronica Harari è una psicologa con esperienza ventennale con adulti e coppie per sostegno genitoriale.