di Roberto Zadik
Un nuovo documentario su Il violinista sul tetto, condotto dalla star Jeff Goldblum, racconta aneddoti, segreti e curiosità dietro alla realizzazione del più grande musical sul mondo ebraico ucraino degli shtetl, massacrato da pogrom e persecuzioni e definitivamente cancellato dalla Shoah. La regia è dell’israeliano Daniel Raim e viene trasmesso fino al 6 maggio nei cinema di Los Angeles.
Uno dei musical più coinvolgenti di sempre, manifesto dell’ebraismo ucraino lacerato e vitalissimo, distrutto da persecuzioni e pogrom, è stato sicuramente il classico intramontabile Il violinista sul tetto, diretto nel 1971 dal regista canadese Norman Jewison, che il prossimo 21 luglio compirà 96 anni. Nemmeno due anni dopo, diresse con la stessa verve un altro film musicale diventato poi un successo mondiale e un vero cult: Jesus Christ Superstar.
Come è avvenuta la lavorazione di quel capolavoro, tratto dal celebre romanzo La storia di Tewje il lattivendolo (pubblicato in Italia nel 2000 da Feltrinelli con traduzione di Livia Lattes e prefazione di Gad Lerner), firmato dallo scrittore ebreo ucraino Solomon Rabinovic, noto con lo pseudonimo di Shalom Aleichem?
A riassumere aneddoti, emozioni e situazioni sul set del lungometraggio ecco oggi il documentario Fiddler’s journey to the Big Screen (Il viaggio del violinista verso il grande schermo) che, secondo l’articolo pubblicato dal Times of Israel il 29 aprile a firma di Renee Gert Zand, sarà nelle sale cinematografiche californiane a Los Angeles fino al 6 maggio.
Il documentario, diretto da Daniel Raim, 48 anni, israeliano naturalizzato americano, racconta come Il violinista sul tetto abbia rappresentato non solo uno dei tanti film di Jewison ma sia stato la svolta decisiva nella sua carriera. All’epoca, alla fine degli anni ’60, si sentiva talmente turbato dal fermento socio-politico in atto da pensare di lasciare la carriera cinematografica. Quel film, invece, fu non solo la sua salvezza ma ne consacrò il talento di autore di spessore, dopo una carriera iniziata con commedie frizzanti e piuttosto leggere come 20 chili di gioia e una tonnellata di guai, interpretata da Tony Curtis.
Tutto cambiò quando l’importante casa di produzione cinematografica statunitense United Artists lo ingaggiò per l’adattamento cinematografico del romanzo di Aleichem. “Questa tremenda impresa è stata la cosa migliore per me” scrisse Jewison nel 2005 nella sua autobiografia. Ma tutto questo e molto altro viene raccontato dal documentario. Il regista Raim racconta: “Jewison era la persona giusta per dirigere quel film, non solo per sue commedie precedenti come I Russi stanno arrivando ma anche per il suo incredibile senso del ritmo e la passione per la musica”. Fu così che quel film divenne l’occasione di crescere artisticamente e umanamente, immergendosi, lui nato in una famiglia protestante, in un ambito totalmente nuovo come l’ebraismo ortodosso yiddish della Russia all’inizio del Novecento.
Nel documentario viene raccontato, dalla voce del carismatico Jeff Goldblum, attore ebreo americano di origini russe e austriache (molto famoso per successi anni ’80 come Il Grande Freddo di Lawrence Kasdan e Tutto in una notte di John Landis) il percorso creativo di Jewison, la lavorazione sul set e le peripezie dello staff attraverso interviste, rare immagini e materiale d’archivio.
Vengono svelati vari dettagli interessanti di questo cult movie, dai luoghi in cui venne girato, come Lekenik, cittadina dell’ex Jugoslavia, ai Pinewood Studios di Londra, ai costumi, enormemente influenzati dalle fotografie scattate da Roman Vishniac nei villaggi ebraici Est europei, gli shtetl, prima della Seconda Guerra Mondiale.
Fra i tanti aneddoti descritti, l’adattamento del romanzo da un contesto estremamente peculiare, come quello degli shtetl e in particolare del villaggio ucraino di Anatevka in cui si svolge tutta la vicenda, a un film dal gusto più universale e la difficoltà da parte di Jewison di trovare l’attore giusto per il ruolo del protagonista Tewje. Dopo aver rifiutato l’esuberante Zero Mostel, famoso per aver collaborato con Mel Brooks nell’esilarante Per favore non toccate le vecchiette, il regista venne colpito dall’attore israeliano Chaim Topol che, di origine ucraina come Shalom Aleichem, aveva ascoltato durante la sua infanzia suo padre mentre recitava in yiddish le storie raccontate nei romanzi dello stesso scrittore.
La scelta si rivelò estremamente azzeccata: oltre un milione di persone, trascinate dalla verve registica di Jewison, dal talento di Topol e da un cast di attori estremamente espressivi, quasi tutti ebrei – fra questi Paul Michael Glazer, famoso per il telefilm Starsky e Hutch – accorsero al cinema per vedere il film.
La forza emotiva del film affascinò il regista Daniel Raim fin da quando, da ragazzino, lo vide su videocassetta a casa dei suoi nonni a Haifa, rimanendone estremamente coinvolto. Nel 2009, assistette poi a una esibizione teatrale dello stesso Topol che riproponeva il musical in un teatro di Los Angeles. Fu così che, negli anni, sviluppò l’idea di realizzare questo documentario che è anche un omaggio al “non ebreo” Jewison, capace di immedesimarsi in una storia profondamente ebraica come questa, coinvolgendo un pubblico vasto ed eterogeneo. La sua dedizione e l’accuratezza della sua ricerca, così come la profonda amicizia con un ebreo della sua città, Toronto, che lo portò a visitare la sinagoga locale, ebbero un ruolo fondamentale. “Ho sempre sentito una forte affinità con l’ebraismo e la cultura ebraica – ha detto il 95enne Jewison, in un’intervista citata dal Times of Israel – avendo l’occasione di visitare Israele varie volte e sedendomi una volta perfino accanto al primo ministro Golda Meir in occasione della prima del film in Israele”.