di Maria Eleonora Tanchis
Anche qui lo stesso spirito critico, la stessa vena corrosiva e dissacrante. I fratelli Ethan e Joel Coen che pure hanno un rapporto controverso con il proprio ebraismo di appartenenza, di certo non hanno mai disconosciuto il debito che il loro cinema ha con lo humour venato di cinismo e il proverbiale spirito critico tipicamente ebraico. E la stessa cosa accade oggi per il western “Il Grinta”, appena uscito nelle sale italiane.
La giovane adolescente Mattie è convinta che anche il migliore dei cattivi NON abbia diritto a buon giudizio. Eppure di quel cattivo lei ha bisogno. Così nasce il sodalizio fra una ragazzina dalle lunghe trecce e la tempra d’acciaio, con lo sceriffo federale ormai del tutto incanaglito dagli anni e dalle vicissitudini.
Di certo è il più spietato della zona, soprannominato il “Grinta” (perchè fra una bevuta e l’altra, ha dimenticato il numero delle anime nere che ha spedito all’altro mondo). Mattie lo assolda per far fuori il bandito che ha ucciso vigliaccamente il padre sulla soglia di casa. E lui, che ha bisogno di contanti, non sa dire di no. A loro si aggiunge un baldanzoso Texas Ranger, desideroso di prendere lo stesso assassino, che ha freddato senza ragione il governatore del suo stato. Inizia così il viaggio fra i territori di frontiera grigi e montagnosi abitati dagli indiani, alla ricerca di una spietata vendetta, di una ricompensa monetaria e di gloria. I fratelli Coen riadattano il film ” Il Grinta” del 1969 (che fruttò a John Wayne l’unico Oscar della sua carriera) a sua volta tratto da un romanzo di Charles Portis, uscito a puntate un anno prima sul Saturday Evening Post, e gli ridanno lo smalto che aveva perso nella precedente trasposizione. Se il “Grinta” di Hathaway (grande maestro del western, diresse Marilyn Monroe in “Niagara”) fu concepito come il classico film americano per famiglie, nel quale abbondano cappelloni, speroni, stivali, e stelle da sceriffo, i fratelli Ethan e Joel Coen preferiscono rispolverare quella vena di cinismo e humour color petrolio, che scorre intrepida fra le pagine del libro di Portis, e che trasforma la storia in un western “anticonvenzionale”, proprio come “anticonvenzionale” era il western psicologico di Cormac McCarthy “Non è un paese per vecchi”, precedente lavoro dei due registi. Maestri di dissacrazione, riescono ad imprimere quindi la loro impronta anche in un genere che da decenni soffre di uno stato d’inerzia. Ci riescono anche grazie ad un meraviglioso Jeff Bridges, per questo ruolo candidato all’Oscar (vinto l’anno scorso grazie all’interpretazione in “Crazy Heart), che, nelle vesti dello sceriffo dal grilletto facile, ci ricorda nostalgicamente il Drugo di “The Big Lebowsky” (qui la palla da bowling è sostituita da un fucile, ma l’approccio alla sfida è sostanzialmente lo stesso). Fu proprio quel personaggio a rendere Bridges attore leggendario, attore di culto grazie ai Coen, tanto che nel 2007 nacque addirittura una religione ispirata alla filosofia di vita del “Dude”, che ad oggi conta più di 100.000 adepti sparsi per il mondo. Nel precedente “A Serious Man”, i fratelli Coen non concedono al povero Larry Gopnik, insegnante di fisica sull’orlo di una crisi di nervi la possibilità di divenire “mensch”, tramite i consigli e le raccomandazioni di tre rabbini diversi; nel “Grinta” invece si dimostrano decisamente più compassionevoli. Il prezzo per divenire uomini d’onore e moralmente integri non passa attraverso il testo sacro o la moralità religiosa ma per merito di una pistola fumante.