Ida Haendel. Foto: Sarit Uziely

Il violino di Ida Haendel, sublime come un canto di preghiera

Spettacolo

di Carlo Vitali

Ida Haendel. Foto: Sarit Uziely
Ida Haendel. Foto: Sarit Uziely

Piccolina, cappello a punta e stivaletti, gran chioma fulva; pare un elfo benevolo dipinto da Chagall: è Ida Haendel, leggenda vivente del violino, coetanea di giganti ormai consegnati alla storia come Isaac Stern e Yehudi Menuhin. Lei invece è ancora in piena attività.

In Italia per una serie di concerti e incontri, alla Sagra Malatestiana di Rimini ha interpretato pagine di Schumann, Enescu e De Sarasate, e ha tenuto una masterclass al Conservatorio di Verona. È poi volata a Miami, a preparare la prossima tournée. Ida Haendel ha traversato la maggior parte del Novecento e ora ha i piedini ben calzati e saldamente piantati nel nuovo millennio. L’hanno accompagnata nei suoi appuntamenti italiani due giovani pianisti: Francesco Libetta e Giselle Brodsky, direttrice dell’International Piano Festival di Miami nonché amica e agente; a vederli li diresti affaticati dal ritmo del giro turistico. Lei no. “Please call me Ida”, sono le sue prime parole durante l’incontro. Lo stile è affettuoso-familiare, ma il fresco ricordo della sua esibizione riminese incute riverenza: bel suono, ricco, intenso, talora aggressivo. Nell’arte del legato cantabile -oggi in decadenza presso certi grandi nomi del firmamento violinistico-, ricorda Arthur Grumiaux e Isaac Stern, diteggiatura e trilli sono di una scorrevolezza meravigliosa. La posizione della mano destra, ferma ma flessibile, le consente arcate lunghe e riserve di potenza che contrastano con la sua fragile figura fisica. D’altro canto il colore delle sue note scivolate, magari un po’ carico rispetto alla moda odierna, sembra ereditato da Enescu, col quale studiò a Parigi, o da Jascha Heifetz. Sarà per questo che Vengerov e la Mutter la corteggiano. Insomma: Ida Haendel è l’ultima esponente di una scuola violinistica che sposava rigore tecnico e libertà espressiva, ma non ama troppo le classificazioni. “M’inquietano i discorsi del tipo ‘Oggi nessuno suona più così’. Chi suonava così quando io ero giovane? Ero diversa allora, sono diversa oggi”.

Originalità totale, persino all’anagrafe. A lungo sono circolate date di nascita esitanti fra il 1923 e il 1928; colpa di un agente londinese che nel 1937 pensò bene d’invecchiarla per eludere le leggi sul lavoro notturno. “Sono nata a Chelm il 15 dicembre 1928, questa è la verità”. Chelm, cittadina polacca al confine sud-orientale dell’Urss, contava allora 23.000 abitanti, di cui la metà ebrei. “Più della metà!”. Gli ebrei di Chelm erano famosi per il loro umorismo e vivevano in pace con i loro concittadini polacchi, ucraini, bielorussi e tedeschi, ma dopo il 1945 erano quasi tutti scomparsi nel lager di Sobibór. Lei si considera una miracolata? “Il vero miracolo è come fu scoperto il mio talento musicale. Avevo da poco compiuto i tre anni quando afferrai il violino di mio padre e rifeci senza stonature un motivo che mia madre aveva appena finito di cantare in cucina. Devo ammettere di aver evitato le persecuzioni razziali perché nel 1936 mio padre trasferì tutta la famiglia per farmi studiare musica: prima a Varsavia poi a Londra. Lui era uno stimato ritrattista, e fra i suoi clienti contava diversi antisemiti. Non me lo so spiegare: in patria la mia famiglia e io abbiamo conosciuto soltanto gentilezza e rispetto, forse perché ero una bambina prodigio. L’Olocausto è stato già abbastanza orribile e non voglio mistificarlo con vittimismi inventati. Di persona non ne ho sofferto, ma non per questo mi sento diversa”.

Naturalizzata cittadina britannica come Menuhin, continua a sentirsi un’ebrea polacca. Parla ancora polacco e yiddish, più una mezza dozzina di altre lingue, come si addice a un’artista che ha vissuto lunghi anni a Londra e a Montreal, si è stabilita a Miami fin dal 1979, e ha sempre girato il mondo dall’era dei piroscafi: inglese certo, e poi russo, tedesco, francese, spagnolo, un po’ di ebraico moderno e d’italiano. Le sue molte patrie se la contendono: a Londra è commendatore dell’Impero e dottore honoris causa del Royal College; in Israele va ogni anno, ospite di Shlomo Mintz nel kibbutz di Eilon, per insegnare a giovani violinisti di ogni paese; in Polonia, dove è tornata in visita ai luoghi natali nel 2003 e nel 2006, ha suonato davanti a Benedetto XVI nel lager di Birkenau. Gli organizzatori le avevano chiesto una melodia ebraica, e lei scelse la cosiddetta Preghiera di Händel, un arrangiamento dall’aria “Vouchsafe, o Lord” curato dall’antico maestro di Ida: Carl Flesch, didatta ebreo-ungherese dalla cui scuola sono usciti fra gli altri Henryk Szeryng e Ivri Gitlis.

Ida non si è mai sposata. Uomini importanti nella sua vita? “Anzitutto mio padre: un vero artista; uomo buono, intelligente e onesto che capiva di musica e non temeva di lodare in pubblico i miei concorrenti. Poi Carl Flesch. In quegli anni, fra il ’35 e il ’39, si stavano formando con lui la francese Ginette Neveu e il polacco Joseph Hasid: due grandi talenti destinati a morte precoce. Come tutti i maestri di allora, Flesch aveva un metodo didattico suo che esplicò anche in alcuni trattati, ma non lo usò con me perché disse che ero già un’artista e suonavo di tutto. Prima di partire per un viaggio di tre settimane in Germania, mi disse ‘Al mio ritorno voglio sentirti suonare tutti i 24 Capricci di Paganini’. Me ne fece suonare tre e poi disse: ‘È sufficiente, le tue dita corrono già abbastanza veloci”. Viene il dubbio che Ida Haendel abbia avuto troppa fretta di scrivere la propria autobiografia. Woman with violin, pubblicata nel 1970, potrebbe oggi arricchirsi di un secondo volume non meno interessante; magari intitolato Alive and kicking, come a dire “viva e vegeta”. C’è un inspiegabile buco nero nella sua carriera. Nel 1935, a sette anni, entrava in finale al premio Wieniawski. Nel 1937 debuttava ai Proms di Londra; nel 1946, dopo la parentesi bellica in cui si esibì per le truppe alleate, il debutto americano la lanciava nell’olimpo dei violinisti. Il tremendo Concerto di Sibelius era un suo cavallo di battaglia. Anche l’Italia le deve molto: a metà degli anni ’50, auspice Celibidache, Ida Haendel interpretava in prima mondiale il Concerto di Casella e Tartiniana Seconda di Dallapiccola. Poi due, tre decenni di oblio.

È stata riscoperta verso la fine degli anni ’80; in ultimo le sue apparizioni rimbalzano sul web grazie all’attivismo di Giselle Brodsky, che gestisce un sito dedicato dal quale filtrano anche su YouTube. Per i più giovani una rivelazione, per chi la conosceva nella sua prima vita artistica un vero choc. Non ha mai suonato così bene, affermano alcuni di questi veterani. Lei ironizza: “Diciamo la verità: per lo star-system di oggi non sono abbastanza fotogenica”.

Questo articolo è tratto dall’intervista di Carlo Vitali per Amadeus (Marzo 2011), il mensile della grande musica che esce ogni mese con un CD di musica classica allegato.