di Maria Eleonora Tanchis
Libertario, anarcoide, da sempre politicizzato. Uscito dal mondo underground di cui ha fatto parte per decenni, Israel Horowitz ne conserva ancora tutta la grinta, la verve e la carica anticonformista. Ma con la forza di un testimone del proprio tempo trasformatosi in un classico. Del teatro, della scrittura, dell’impegno etico. Un gigante della drammaturgia americana ancora poco conosciuto in Italia. “Credo nel teatro e soprattutto nella drammaturgia: è l’unica cosa che ha il potere di condurre la gente altrove, fuori da se stessa, e catapultarla in altri mondi, altre vite, altre personalità”, dice Horowitz.
Figura di primo piano della scena culturale ebraico-americana, drammaturgo prolifico (ha scritto oltre settanta testi teatrali, tradotti in oltre trenta lingue diverse), Israel Horowitz ha compiuto settant’anni l’anno scorso (e li porta benissimo). Da giovanissimo si trasferisce dal Massachussets a New York insieme all’amico fraterno e attore John Cazale, indimenticato Fedro Corleone de Il padrino, per proporre ai teatrini della Grande Mela quello che diventerà uno dei suoi più grandi successi. Nel 1968, con The indians wants to Bronx, e It’s Called the Sugar Plum non solo si afferma nel panorama teatrale internazionale, ma segna l’inizio della carriera di Al Pacino, giovane protagonista del primo adattamento e di Jill Clayburgh, meravigliosa attrice di origini ebraiche recentemente scomparsa. Va ricordata inoltre anche la collaborazione con Richard Dreyfuss in The Line del 1974, la piece che tuttora detiene il record di longevità fra tutte le recite off Brodway (e che segnerà, nel ‘94, il debutto teatrale dell’attrice nostrana Stefania Sandrelli). L’anima di queste (e di gran parte della sua successiva produzione) verte sul tema dell’intolleranza in tutti i suoi molteplici aspetti.
Sceneggiatore di moderne tragedie, di conflitti sociali e di storie metropolitane, Horowitz può essere considerato uno dei più interessanti narratori contemporanei viventi. Non a caso è proprio lui che ai tempi della grande ribellione studentesca sessantottina, sceneggia il film più significativo di quel periodo storico, Fragole e sangue, che lo consacra agli occhi del grande pubblico. Diretto da Stuard Hangmann, esordisce nelle sale americane nel 1970 e vince il Premio della giuria di Cannes, entrando così nella categoria delle pellicole politiche più “cult” degli anni settanta. Il film rappresenta per lui anche un momento di gloria sia dal punto di vista professionale, sia da quello privato. È durante le riprese di Fragole e sangue che egli riceve un invito a pranzo dal premio Nobel Samuel Beckett, drammaturgo e poeta, con cui instaura un sodalizio che lo influenzerà notevolmente nel lavoro e nella vita personale, a tal punto che lo stesso Horowitz lo definirà più volte il suo “padre spirituale, letterario, morale”.
Per celebrare la carriera di Horowitz (e farlo conoscere in modo più approfondito al pubblico italiano), sono state allestite quest’anno diverse manifestazioni di rilievo. Dal 4 al 6 febbraio Horowitz si trovava a Spoleto con la compagnia teatrale di cui è attualmente direttore artistico insieme ad Andrea Paciotti per presentare Suite Horowitz, dissacrante commedia agrodolce che vede protagonisti uomini e donne comuni che si trovano nello stesso hotel in vacanza. La scelta di iniziare il tour a Spoleto non è casuale. Nella cittadina umbra infatti, debuttò con il suo primo copione durante il Festival dei Due Mondi. A marzo invece la compagnia Horowitz-Paciotti è stata ospitata a Milano, dove è andata in scena al Teatro Elfo Puccini la rappresentazione, inedita in Italia, della Trilogia Horowitz (L’indiano vuole Il Bronx – 1968, Beirut Rocks – 2006, Effetto Muro – 2009), opera-manifesto contro i pregiudizi razziali e contro le sanguinose rappresaglie politico-religiose in corso. Gli ultimi due atti si concentrano prevalentemente sul conflitto israelo-palestinese, vissuto da diversi punti di vista. Il drammaturgo decide di non schierarsi, e dichiarerà in un’intervista “Alla mia età tra israeliani e palestinesi non posso più prendere una posizione: la guerra è una pazzia e nessuno ha ragione”. Horowitz rimane dunque coerente agli ideali espressi così lucidamente in tutte le sue opere, e decide di non puntare il dito su nessuno. E per un anticonformista poco propenso ad allinearsi e a coltivare il gioco degli schieramenti, non poteva essere altrimenti.