La vita? Tutta un pettegolezzo

Spettacolo

di Fiona Diwan

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Una straordinaria pellicola inaugura l’ottava edizione del Festival del Nuovo Cinema Israeliano. È la storia di Assi Dayan, figlio-pecora nera del generale dalla benda nera.

La bellezza e la fragilità. L’amore negato, l’autodistruttività, l’abisso dell’alcol e della droga ma anche l’ostinata volontà di un riscatto umano, morale, artistico. Difficilmente si esce indenni dalla visione di questo mirabile docu-film. È la storia travolgente e emblematica di Assi Dayan, figlio di Moshè Dayan, ma è anche la vicenda tormentata di una generazione, quella dei “figli degli eroi”, progenie dei padri fondatori che hanno costruito lo Stato d’Israele con le armi in mano. Una gioventù che sperando di raccogliere una difficile eredità ha bruciato se stessa inseguendo un modello forse inarrivabile e, nel caso dei figli di Moshe Dayan , un padre disperatamente anaffettivo.

Quello con cui si è inaugurata ieri l’ottava edizione del Festival del Nuovo Cinema Israeliano al Cinema Oberdan di Milano (a cura del CDEC e della Fondazione Cineteca Italiana, main sponsor AcomeA), è Life as a Rumor – La vita è un pettegolezzo, un docu-film che ti inchioda alla sedia per un’ora e mezza, una sceneggiatura che è un autentico capolavoro, un montaggio originalissimo e realizzato con una tecnica inedita e sorprendente dai due registi cult Adi Arbel e Moish Goldberg. Eccellente quindi (e coraggiosa), la scelta degli organizzatori Dan Muggia, Paola Mortara e Nanette Hayon, di aprire la rassegna con una pellicola così “forte” e a suo modo spietata, capace, mentre ti tocca il cuore, di darti anche un pugno nello stomaco. Uno sguardo antieroico, duro e inquieto, su un’umanità israeliana piena di zone oscure.

Imperdibile quindi la visione in replica di questo docu-film, prevista per mercoledì 10 giugno alle ore 19.00.

La storia privata e la “discesa agli inferi” di Assi Dayan si intreccia così in modo indissolubile con la storia dello Stato d’Israele, dall’epopea dei pionieri alla guerra d’Indipendenza, dalla Guerra dei Sei Giorni a quella del Kippur fino alle guerre del Libano. Perché Assi Dayan non è stato solo il figlio “rigettato” di Moshè Dayan (stessa sorte è toccata anche ai fratelli Yael e Udi), ma anche, a suo modo, “un eroe del proprio tempo”, attore, regista, poeta, scrittore, sceneggiatore, giornalista, talento multiforme e maledetto, personaggio controcorrente e simbolo di una generazione di giovani israeliani in cerca di una identità diversa e antieroica. Perché questo film è soprattutto l’autobiografia di una generazione “perduta”, che seppe guardare alla società israeliana in modo a tal punto doloroso da profetizzarne l’implosione autodistruttiva avvenuta con l’omicidio di Itzchak Rabin.

Il film è narrato in prima persona, come se fosse proprio lui, Assi Dayan, a raccontarci in modo spietato la propria vicenda umana, i suoi splendori e le sue miserie, gli errori e la poeticità, le debolezze, i passi falsi, l’assillo persecutorio dei propri demoni interiori. Quattro matrimoni, quattro figli, il dolore di un padre sempre assente e mai accogliente, il senso di perenne e lancinante inadeguatezza verso un genitore che è un eroe nazionale, un guerriero osannato da tutti ma anche un fedifrago seriale, un padre che umilia i propri figli e che al telefono fa la gelida conta anticipata di quanti soldati moriranno nell’operazione del giorno dopo; e ancora, un ladro finito sotto inchiesta per furto di antichità greco-romane, animato da un pessimismo intriso di senso della morte che trasmetterà, suo malgrado, anche alla progenie.

Fa male veder scorrere l’infelicità di questo golden boy, bello come un dio greco e malato di un Edipo divorante. Il documentario non risparmia nulla. Un inferno lastricato di ricoveri psichiatrici, un vuoto interiore che lo devasta e lo rende dipendente dalle sostanze stupefacenti, l’esordio come poeta e sceneggiatore, la scelta di fare l’attore, poi quella di darsi alla regia di film-burekas (in ebraico si chiama così il cinema-spazzatura), le ambizioni artistiche tradite, gli amori naufragati nella cocaina e negli psicofarmaci. E infine, tardivo, il grande successo artistico, i premi vinti ai grandi festival cinematografici e la consacrazione con la regia di film come La vita secondo Agfa e con la serie televisiva BeTipul di cui è stato l’attore protagonista (acquistata poi dagli Usa che ne ha fatto la serie In Treatment)

Assi Dayan si è spento a maggio di un anno fa, all’età di 68 anni, sulla soglia di un’irraggiungibile normalità.