di Roberto Zadik
Il prossimo 11 ottobre Amos Gitai, il più famoso e controverso regista israeliano compierà 70 anni ma nonostante il passare degli anni, l’autore torna alla carica con la sua nuova pellicola. Dal 2 al 12 settembre, Gitai sarà in concorso alla 77esima edizione del Festival di Venezia, decisamente complessa a causa del Covid, con il suo nuovo film Laila in Haifa. Ogni volta il suo cinema intenso ma decisamente pungente e critico suscita emozioni forti, positive o anche molto negative e per questo l’autore viene spesso accolto fra entusiasmi e polemiche. Uno dei personaggi più in vista dell’intensa ma poco conosciuta scena culturale israeliana, Gitai “sbarcherà” alla manifestazione con questa opera che si rivolgerà al pubblico dal punto di vista delle giovani generazioni del Paese, sia da parte israeliana che araba.
La trama di “Laila in Haifa”
Ma di cosa parla questo nuovo film? Pacifista, intellettuale, attento sia alla “forma che alla sostanza” come dichiarò in una sua intervista del 2014 al Festival del cinema di Stoccolma, Gitai ha ambientato la trama del film in un locale notturno della sua città natale, Haifa, mischiando, un cast di attori israeliani e arabi per raccontare la realtà sociale dello Stato ebraico dal punto di vista di entrambi. Come è avvenuto nella serie tv Fauda, interpreti di religione ebraica e musulmana recitano assieme e a questo proposito uno dei protagonisti è l’attore Tsachi Halevy al centro della fortunata fiction e di questo nuovo film che nel 2018 è stato al centro delle polemiche per aver sposato in seconde nozze la giornalista palestinese Lucy Aharish.
Intervistato lo scorso 4 luglio dal Corriere della Sera, Gitai non ha rivelato molti dettagli del suo nuovo lavoro sottolineando che il nome del titolo “Laila è una parola araba” ma anche ebraica “che significa notte e qui racconto di un bar dove si trovano le persone più disparate”. L’autore torna a riflettere sulle dinamiche sociali e interiori dei suoi protagonisti e del suo Paese e su questioni spinose, che sembrano la sua passione, mischiando, come nel suo stile, attualità, realismo e riflessione intimista.
Un cinema riflessivo
Figlio dell’architetto polacco laico e di sinistra Munio Weintraub esponente di punta del Bauhaus, movimento architettonico novecentesco di grande importanza e morto a 61 anni nel 1970 e di una madre di famiglia religiosa, Gitai ha rappresentato col suo cinema quasi mezzo secolo di storia israeliana. Sotto il suo sguardo caustico e disincantato, ha analizzato momenti politici fondamentali e anche molto drammatici del suo Paese.
Come nel film Kippur riflettendo su una delle guerre israeliane più pesanti quando l’esercito fu costretto a combattere nel giorno più solenne dell’anno, il digiuno dello Yom Kippur nel 1973 e Rabin the Last Day dove racconta non solo l’omicidio di Rabin ma anche le tensioni dei negoziati di Oslo e il clima rovente che si respirava in Israele precedentemente alternando sequenze tratte da telegiornali e documentari e scene di fiction. Autore estremamente prolifico, circa 90 titoli in 40 anni di carriera, uno dei suoi film più discussi è stato il suo Kadosh del 1999 dove descriveva in maniera estremamente corrosiva le tensioni di una coppia di ortodossi del quartiere di Mea Shearim di Gerusalemme.
Decisamente più disteso a Tramway to Jerusalem in cui si sofferma su vari personaggi della capitale israeliana, fra gli attori anche la cantante Noa, a bordo del tram che attraversa la città. Nel suo percorso artistico lungo e articolato Gitai ha lavorato non solo con attori israeliani ma con nomi internazionalmente noti come le attrici francesi Jeanne Moreau e Juliette Binoche e la tedesca Hanna Schygulla girando vari festival e importanti manifestazioni cinematografiche. Contestato e ammirato, sempre al centro dell’attenzione mediatica e voce costantemente in disaccordo con l’establishment Amos Gitai non è solo un regista ma in questi anni è stato ideatore e curatore di iniziative estetiche e architettoniche in vari