di Ester Moscati
Se Guido Orefice/Benigni, ne La vita è bella, aveva inventato per il suo bambino il “grande gioco” del lager con in palio un carro armato, qui il protagonista “inventa se stesso” e addirittura una lingua, per salvarsi la vita. Gilles, giovane ebreo belga, diventa il “persiano” Reza e giorno dopo giorno crea un personalissimo farsi da insegnare al comandate nazista Koch che coltiva un sogno: aprire un ristorante a Teheran.
Stiamo parlando del film Lezioni di persiano del regista Vadim Perelman, classe ’63, ucraino di origine ebraica, naturalizzato canadese. Un regista di tutto rispetto, che aveva esordito nel 2003 con La casa di sabbia e nebbia, per il quale i protagonisti Ben Kingsley e Shohreh Aghdashloo erano stati addirittura candidati all’Oscar e Perelman aveva vinto il National Board of Review Award come miglior regista esordiente.
Lezioni di persiano, che abbiamo visto grazie all’anteprima organizzata in streaming dall’ADEI-WIZO, trova, per affrontare il tema delle deportazioni naziste durante la Seconda Guerra Mondiale, una chiave narrativa originale e suggestiva, che dà modo anche di palesare il sostrato di crudeltà, follia, sadismo ma anche di gelida burocrazia che domina anche in un lager “di transito”, fra la Francia e la Germania, come quello che fa da sfondo alla vicenda narrata.
La storia è basata sul racconto di Wolfgang Kohlhaase, Erfindung einer Sprache (Invenzione di una lingua), in cui un ufficiale tedesco responsabile delle cucine del campo, Koch (Lars Eidinger), sogna di aprire un ristorante in Persia, una volta finita la guerra. Il fratello, contrario al Nazismo, è già emigrato da tempo laggiù e Koch spera di raggiungerlo per realizzare il suo progetto.
Ha bisogno dunque di imparare il farsi, e cerca disperatamente tra i prigionieri qualcuno di origine persiana. Il destino interviene fornendo al giovane Gilles (Nahuel Pérez Biscayart) un libro, trafugato da un compagno di sventura, con il quale può accreditare la sua menzogna, la sua identità immaginaria: Reza. “Inventare le parole è facile – medita il giovane – il difficile è ricordarle”. S’inventa così un metodo: associare le parole ai nomi dei suoi compagni di prigionia, e questo avrà alla fine della storia un risvolto estremamente toccante. Da brividi.
Il rapporto tra Gilles e Koch si fa via via più personale e l’ufficiale svela debolezze e dubbi, ma anche durezze imprevedibili e una tensione psicologica che ne fa un personaggio a tutto tondo. Gilles da parte sua sembra costantemente divorato dall’ossessione di sopravvivere a tutti i costi, tanto da immedesimarsi nella sua identità fittizia perfino nel delirio.
Un film con un suo messaggio, non retorico, che ci parla di responsabilità, dovere ma soprattutto dell’inestinguibile desiderio di ogni essere umano: vivere.