Mamma che paura! Da Lilit al Golem, ecco a voi… il brivido ebraico

Spettacolo

di Nathan Greppi

Cinema horror e folklore ebraico, un connubio tutto da scoprire. Dal Dybbuk a Abyzou, dai vampiri metropolitani alle possessioni di giovani spose ortodosse: la tradizione ebraica è da molto tempo una fonte di ispirazione per letteratura, teatro e film horror. Ma anche per fumetti e videogiochi

 

Nell’edizione 2023, il Festival del Cinema Ebraico di Berlino ha inaugurato per la prima volta una sezione dedicata ai film horror. Le opere selezionate, provenienti da paesi diversi, vertevano principalmente su figure tipiche dei racconti popolari della tradizione ebraica; come il dybbuk, lo spirito maligno che si attacca ai corpi altrui per prenderne possesso (dalla parola davak, “attaccarsi”), o il Golem, che dalla leggenda di Praga ha spaziato nei secoli attraverso i più disparati ambiti culturali: dalla narrativa al teatro, dal cinema alla televisione, dai fumetti ai videogiochi.
Nel corso dei decenni, il folclore ebraico è stato fonte di ispirazione per scrittori, registi e sceneggiatori, anche se con un impatto minore rispetto ad altre tradizioni. Nel genere dell’orrore, le entità demoniache come il dybbuk, Abyzou e Lilith sono state spesso al centro di storie di paura.

 

Dal teatro al cinema
In generale, sono sempre esistite storie sugli shedim, spettri in ebraico, mentre la figura specifica del dybbuk iniziò a venire tramandata nell’Europa orientale a partire dal XVI secolo. La prima opera teatrale di successo dedicata a questa figura, messa in scena per la prima volta nel 1920, è Dybbuk dell’autore ebreo russo Sholem Ansky. Da questa, nel 1937 il regista polacco Michał Waszyński trasse un film con lo stesso titolo.

Sebbene non fosse stato il primo a scrivere un’opera letteraria su certe leggende, ad Ansky «si deve la grandiosa sistematizzazione letteraria del fenomeno, il cui punto di partenza è nel copioso materiale etnografico da lui raccolto, insieme a vari collaboratori, presso i villaggi ebraici in Ucraina», spiega a Bet Magazine Giancarlo Lacerenza, docente di Lingua e Letteratura Ebraica all’Orientale di Napoli. Negli anni ’20 e 30 del secolo scorso, l’opera teatrale di Ansky riscosse un certo successo a livello mondiale. Secondo Lacerenza, ciò avvenne su più fronti: «Da un lato, nel teatro popolare yiddish; da un altro versante, quello più intellettuale e concettualizzato, in ebraico, dell’adattamento del Teatro Habima; quindi ovunque attraverso le numerose e precoci traduzioni in quasi tutte le lingue europee, italiano compreso. Questa enorme diffusione e popolarità ha reso familiare al grande pubblico di tutto il mondo una credenza che, altrimenti, sarebbe rimasta confinata in un ambito decisamente ristretto».

 

Sviluppi successivi
Se la pellicola di Waszyński era più sul genere fantastico, in seguito il dybbuk è stato al centro di film dell’orrore, come The Unborn del 2009 e The Possession del 2012 (in quest’ultimo, compare il musicista ebreo americano Matisyahu nei panni di un esorcista chassidico).

Non sono mancate poi sue rappresentazioni in commedie e drammi, come il film del 2009 A Serious Man dei Fratelli Coen, che si apre con una scena su una possessione da dybbuk ambientata in uno shtetl nell’800. Anche al Golem sono stati dedicati film horror, come The Golem del 2018, diretto da due registi israeliani, i fratelli Doron e Yoav Paz.

Una figura della tradizione ebraica di particolare successo nel cinema horror è Abyzou, spirito maligno di sesso femminile che rapisce bambini. Oltre che nel già citato The Possession, essa è presente anche nel film del 2022 The Offering. Ancora più successo ha riscosso nel tempo la figura di Lilith, il demone della seduzione che secondo una certa tradizione fu la prima moglie di Adamo prima di Eva.
Non si contano i film, le serie tv, i fumetti e i videogiochi dove non compaia o venga citata la figura di Lilith, tanto che persino Primo Levi la citò in una delle storie della sua antologia Lilít e altri racconti (Einaudi, 1981).

Nell’ultimo decennio, la figura del dybbuk ha riscosso un interesse tale da ispirare dei film non solo in Israele o negli Stati Uniti, ma anche in Polonia (Demon, 2015), Danimarca (Attachment, 2022) e persino in India, dove sono usciti almeno due film di questo genere: Ezra del 2017 e Dybbuk del 2021.
In generale, le comunità ortodosse si sono più volte prestate a fare da ambientazione a questo tipo di storie: nel film del 2019 The Vigil si vede Yakov, ebreo newyorkese che ha lasciato la sua comunità e la religione, dovervi fare ritorno perché per lavoro deve vegliare sul corpo di un defunto. Durante la notte, si ritrova da solo a dover affrontare un’entità malvagia conosciuta come il Mazzik.

 

Il cinema israeliano
Oltre a The Golem, in anni recenti da Israele sono venuti fuori altri film horror, anche se con un certo ritardo rispetto ad altre nazioni: i fratelli Paz si sono cimentati anche nel genere dell’apocalisse zombi con il film del 2015 Jeruzalem, che vede due turiste ebree americane che devono sopravvivere in una Gerusalemme infestata da creature mostruose seminano il terrore.

«Come tutti i bambini cresciuti in Israele, abbiamo imparato le feste e le storie della Torà all’asilo. E in qualche modo, anche le canzoni allegre e i libri da colorare non sono riusciti a nascondere il lato oscuro e inquietante che si nasconde in esse -, hanno spiegato i Paz in un’intervista del 2023 al sito Ynet. – Siamo sempre stati attratti dalle storie che hanno un lato oscuro: è un modo meraviglioso per mettere alla prova i personaggi e portare la drammaticità al massimo nel minor tempo possibile. Ad un certo punto, ci siamo resi conto che non dovevamo ricorrere a miti europei o cristiani, ce ne sono tanti anche di ebraici. È così che abbiamo realizzato Jeruzalem e The Golem».

Come ha spiegato l’ebraista e storica del cinema Olga Gershenson nel suo libro New Israeli Horror (Rutgers University Press, 2023), prima del 2010 non esistevano veri e propri film dell’orrore in Israele, si erano viste solo delle sperimentazioni quasi amatoriali. Ad un certo punto, una nuova generazione di cineasti ha deciso di portare sul grande schermo delle storie nuove, in contrapposizione alla narrazione portata avanti dalle precedenti generazioni di registi, incentrata soprattutto sulla guerra.

Di questa nuova generazione fanno parte ad esempio Aharon Keshales e Navot Papushado, registi nel 2010 di Kalevet, considerato il primo vero film horror israeliano. Nel 2013, con il successivo Big Bad Wolves, riscossero un successo internazionale, soprattutto dopo che Quentin Tarantino dichiarò che per lui era in assoluto il miglior film uscito quell’anno.

Molti horror israeliani, come Muralim del 2013 e Freak Out del 2015, sono ambientati in contesti legati all’esercito. Intervistato da Haaretz, il regista di Muralim Didi Lubetzky spiegò che secondo lui ciò era dovuto al fatto che il servizio militare è il luogo di formazione per eccellenza dei cittadini israeliani: «Molti film horror americani sono ambientati nel college, dove ha luogo l’esperienza formativa per molti americani. Quindi per me è stato logico prendere questo stile e trasferirlo nell’IDF».

Di recente, sono uscite anche serie televisive israeliane che attingono alla tradizione popolare: dal 2023 esce The Malevolent Bride, su uno spirito demoniaco che semina il terrore in una comunità ortodossa di Gerusalemme possedendo donne e ragazze. Inoltre, in Israele sono uscite anche serie televisive dedicate ai vampiri, come Split, andato in onda dal 2009 al 2012, e Juda, iniziata nel 2017 e acquisita dalla piattaforma Hulu nel 2019. In Juda, in particolare, si sviluppano anche scene comiche e surreali; ad esempio, ai vampiri sarebbe vietato nutrirsi del sangue degli ebrei, perché avrebbe su di essi degli effetti collaterali.

La tradizione ebraica è da molto tempo una fonte di ispirazione per il cinema horror, ed è plausibile che continuerà ad esserlo anche in futuro. Come spiega Lacerenza, «il Dybbuk di Ansky ha ancora molto da raccontare oggi, su temi che non hanno mai smesso di interessare le persone in ogni tempo e in ogni paese. In ogni atto dell’opera, benché sia stata scritta più di cento anni fa, c’è qualcosa che tocca ancora nel profondo lettore e spettatore».