di Naomi Stern
Incontri: Raphael Tobia Vogel
Raphael Tobia Vogel è un ragazzo di 29 anni, videomaker autore di cortometraggi cinematografici ed ha una mamma dal nome impegnativo: Andrée Ruth Shammah. Ha debuttato nella regia teatrale e a maggio la sua pièce “Per Strada” sarà di nuovo al Teatro Franco Parenti. Uno spettacolo che ha registrato il tutto esaurito, e un successo di pubblico e critica che quasi nulla deve all’augusta genitrice.
Qual è il tuo background?
Ho esordito come assistente alla regia nel cinema. Poi sono arrivate le collaborazioni con Pupi Avati e Gabriele Salvatores. Per caso, il documentario è entrato nella mia vita: per la Rai, sulle regioni italiane e su Gerusalemme. Ho sempre voluto fare cinema. Ma questa è stata l’eccezione che conferma la regola. Dopo due anni che non ci sentivamo, ho rivisto Francesco Brandi, autore di “Per Strada” e mio vecchio amico. Mi ha fatto leggere il testo e mi ha chiesto di farne la regia teatrale.
Come ci si sente a debuttare nel teatro in cui sei cresciuto, a pochi metri da una celebre madre regista?
Il Franco Parenti per me è una casa, sono abituato ad andarci da figlio e da spettatore, non avevo mai vissuto l’esperienza registica e la pressione lavorativa. Per di più, mia madre, che è sempre ben presente nella mia vita, è stata incredibilmente e saggiamente distante. Credo che sapesse che grazie a questo suo atteggiamento avrei potuto tirare fuori il meglio. Infatti, pur essendo la direttrice artistica del teatro, ha visto solo una prova e e non aveva idea di come sarebbe venuto lo spettacolo.
Quali i temi?
Per Stada è la storia di Jack e Paul, due personaggi diametralmente opposti che si incontrano durante una bufera di neve. Più va avanti la storia, più i due giovani scoprono di avere cose in comune. Attraverso un percorso chiasmico, i due prima sembrano opposti, poi si avvicinano e alla fine invertono i percorsi di vita. A livello tematico, i due personaggi si incontrano mentre uno va a suicidarsi e l’altro a sposarsi. È interessante vedere come uno viva le scelte che fa. Anche sposarsi può essere una forma di suicidio. Nei miei lavori ricorre spesso il tema del diritto ad essere infelice, un tema che mi tocca da vicino. Chi ci dice che se sei un po’ più fortunato alla nascita, devi essere felice e godere di quello che hai? A volte l’agio, la fortuna e il destino positivo possono essere un peso. C’è poi il tema del tradimento. Chi ci dice che il tradimento verso un’altra persona non sia più grave che non tradire se stessi?
Quanto della tua esperienza cinematografica hai portato nel mondo teatrale?
La scelta che si avvicina di più al cinema è stata fatta con lo scenografo Andrea Taddei per lo spazio scenico di “Per strada”: proiezioni video che accompagnano lo spettacolo e servono da scenografia ma anche da metafora onirica. Con una struttura a cannocchiale verticale abbiamo creato la profondità di campo; basta modificare di colpo i video ed ecco che non si capisce in che dimensione di realtà o finzione ci si trovi.
Com’è nato “Teatro Interno Notte”, il tuo video proiettato per 4 mesi al Padiglione Banca Intesa di EXPO?
E’ un percorso voyeuristico e onirico in cui un ipotetico spettatore scopre l’anima nascosta del Teatro: come viene vissuto un teatro quando è chiuso e quando è notte? Mi ha sempre sedotto l’idea di dare vita alle ombre.
Progetti per il futuro?
Realizzerò per il Cedec dei ritratti-interviste a personaggi di spicco dell’ambiente ebraico. Intervisterò personalità come Rav Giuseppe Laras e Edith Bruck e cercherò di fare dei mini ritratti rapportandoli alle loro città di origine o alle loro esperienze di vita. Quello che ne verrà fuori saranno racconti in grado di tramandare la memoria dell’ebraismo italiano.
Come vivi il tuo ebraismo?
Ritengo che ciascuno di noi non riesca mai completamente a fuggire o a staccarsi dalla tradizione religiosa o identità che ha ricevuto. Senza dubbio il fatto di avere una madre vicina alle tematiche israeliane ed ebraiche, il fatto di aver fatto il bar-mitzvà mi porta ad un sentire comune. Personalmente sono contrario agli stereotipi, penso che dovremmo lavorare su di noi e non sottolineare troppo la nostra diversità e unicità. Questo atteggiamento ci può portare alla chiusura, a non aprirci verso culture diverse dalla nostra. Tengo al mio ebraismo ma non penso sia vitale ai fini di raccontare quello che ho dentro. Non vorrei rischiare di chiudermi e vivere l’ebraismo come se fosse l’unico mondo che posso raccontare.