Tre personaggi della serie Netflix Shtisel nella terza stagione

Perché piace la terza stagione di Shtisel (almeno a chi scrive)

Spettacolo

di Marina Gersony
In questi giorni non si fa altro che parlare della terza (e speriamo non ultima) stagione di Shtisel, probabilmente una delle migliori (e più premiate) serie Netflix partita in sordina e oggi considerata un vero e proprio cult. Non si contano le recensioni entusiaste su web e social, aldilà di qualche critica soft proveniente da quelle comunità haredi che non si vede rappresentata. Perché tanto successo? Perché Shtisel, terza stagione inclusa, continua a piacere a tutti, ebrei, non ebrei, secolari, laici e religiosi? Possiamo soltanto dire che molti di noi fans e follower della prima ora, dopo aver divorato la terza serie, non ne vediamo l’ora di una quarta che pare sia già in programmazione. Di seguito alcuni motivi (senza spoilerare per chi non l’avesse ancora vista) per cui anche questa terza ci è piaciuta tanto.

CONTENUTI EBRAICI ED EMOZIONI UNIVERSALI

Partiamo dal presupposto che i personaggi di Shtisel, ognuno con la sua peculiarità e con la sua storia, porta con sé un vissuto in cui è facile immedesimarsi. Dolori, dubbi, paure e contraddizioni – così come felicità, gioia, consapevolezza e speranza – sono stati emotivi e mentali che ogni essere umano sperimenta a tutte le latitudini. E già questo è un buon motivo di successo. Un altro plus della serie è il linguaggio profondo e insieme lieve, venato da quella giusta dose di ironia che rende il prodotto finale frizzante e accattivante. E pazienza se qua e là si intuisce qualche licenza filmica finalizzata a creare atmosfere più suggestive: in realtà non tutti gli ultraortodossi sono uguali, non tutti portano i peyos come nella serie, bensì solo basette; non tutti sono poveri o indigenti; non tutte le donne, nonostante aderiscano alle regole di tzniut, indossano abiti, sheitel e snood  dimessi (molte ne portano di più eleganti o sofisticati) e non ultimo è poco probabile vedere degli haredi fumare come il mitico Shulem Shtisel che pare una ciminiera…

Ciò detto gli autori hanno saputo descrivere in modo accattivante e rispettoso la vita degli ultraortodossi del quartiere Gheula a Gerusalemme; un mondo altrimenti inaccessibile alla maggior parte degli spettatori che hanno avuto così modo di immergersi in una realtà per loro nuova e dal fascino “esotico”, dove la difficile arte del saper vivere è comune a ogni percorso esistenziale umano: qual è la famiglia in cui i giovani non entrano in conflitto con i genitori? Famiglie in cui può capitare un divorzio, una separazione, un amore andato a male; o dove ci sono genitori dalle aspettative eccessive, caratteri difficili, piccole sopraffazioni, pressioni esterne e condizionamenti, figli che seguono la propria strada  e altri che rimangono legati alle tradizioni… Gli Shtisel, con le loro avventure e disavventure, coinvolgono perché sono simpatici e autentici, piacciono perché si vogliono bene nonostante imprevisti, beghe e difficoltà e perché non parlano soltanto al mondo ebraico bensì a chiunque sia immerso nel bel mezzo del cammin (e del caos) di propria vita… Kol hakavod dunque a Ori Elon e Yehonatan Indursky, talentuosi creatori di questa popolare serie israeliana, capaci di esprimere con grazia e delicatezza un mondo autentico e umano toccando i nostri cuori.

Non ci soffermeremo a magnificare gli attori, uno più bravo dell’altro, sui quali sono stati versati ettolitri di inchiostro: sono semplicemente fantastici. Una parola la vogliamo invece dire sul ritmo della narrazione: evviva finalmente un racconto  senza scene di omicidi, sesso, stupri, bombe, spari, violenze varie e apocalissi come nell’ormai stragrande parte delle serie sempre più simili a se stesse. Il ritmo dei nostri Shtisel è lento, pacato e morbido, con tempi umani; un ritmo che scandaglia nel profondo, ci fa riflettere ma anche sorridere portandoci a elaborare un minimo di pensiero in questa overdose di film inutili che stanno intasando e ottundendo i nostri cervelli (soprattutto in tempi di lockdown). Chiudiamo questa riflessione citando una delle tante scene memorabili in quanto a squisita ironia, come quando l’anziana madre di Shulem (nonna Malka) che vive in una casa di riposo per ebrei ortodossi dove scopre per la prima volta l’ebbrezza di guardare Beautiful, con sommo disappunto di figli e nipoti… Ma lei, pur essendo osservante e religiosa, non fa un plissé spiegando ai parenti inorriditi che i protagonisti di Beautiful in fondo sono dei bravi religiosi «perché vedi, hanno tantissimi figli!».