Pietre che parlano, che piangono, che ridono

Spettacolo

di Carlotta Jarach

roy flourProvate a pensare di trovarvi in Polonia, davanti a delle immaginarie porte del ghetto di Varsavia: davanti a voi, nel blu del cielo, svetta un’imponente scultura in bronzo alta undici metri, un insieme di corpi agittante, che fuoriesce letteralmente da un blocco quadrato. Un gigantesco bassorilievo che respira: siete di fronte al monumento in ricordo delle vittime della rivolta del ghetto, realizzata nel 1948 dall’artista Nathan Rapoport. Il gruppo scultoreo evoca la sofferenza e il coraggio che animarono quella leggendaria rivolta. Fiori ovunque circondano il memoriale e poi ecco macigni e ancora massi e ciotoli, dappertutto.
E appunto Pietre si chiama la pièce teatrale firmata da “Orto-Da Theatre Group”, una produzione che sta facendo il giro del mondo per la sua dirompente originalità e che andrà in scena a fine gennaio al Piccolo Teatro di Milano.

Lo spettacolo prende spunto proprio dalla scultura di Rapoport e l’idea teatrale è quella costruita intorno a sei attori ricoperti di pittura bronzea che danno vita e azione al blocco scolpito. Pietre che vivono, che parlano, che si emozionano. Pietre che raccontano una storia. Inizialmente statuari ed immobili, i sei attori prendono pian piano vita e si ritrovano così a esistere nel nostro mondo contemporaneo.

«È un allestimento che tutti possono capire e “sentire”, si basa su metafore e simbologia, è uno spettacolo di mimo, privo di parole»: così Yinon Tzafrir, fondatore e direttore artistico della compagnia, ci descrive Stones. L’idea, racconta, nacque proprio dopo aver visto il monumento di Rapoport e dopo esser venuto a conoscenza dell’origine dell’opera. Si racconta come Hitler, sicuro dell’imminente vittoria, commissionasse a uno scultore tedesco il taglio di grosse pietre per realizzare quel che sarebbe stato il suo grande monumento celebrativo terminata la guerra. Sicché, non essendo mai giunta la vittoria tedesca, con la fine del conflitto, le pietre già pronte vennero abbandonate. Fino alla nuova rinascita.
«In questo sta anche il significato della rappresentazione: un simbolo non è mai univoco, non è destinato a rimanere immutato, ma può, a seconda del contesto, assumere i significati più diversi».

Ed è così che, sulla scena teatrale, quella stella gialla, ricordo doloroso per coloro che furono costretti a portarla, spillata al petto, si trasforma in un gioco di luci in una composizione solare a forma di grande sorriso. Ed ancora, il profilo di un Maghen David, disegnato con una corda intrecciata, eccolo diventare in un attimo un aquilone, simbolo di libertà. «Il nostro spettacolo è il frutto di un intenso studio, durato anni: l’assenza di parlato ha permesso di focalizzarci sulla mimica facciale e sui particolari scenografici come per esempio il colore», continua Tzafrir.

Mescolato con estrema astuzia al bronzo dei corpi c’è il rosso, nei particolari dei fiori e di un leggero palloncino, colore con un forte rimando all’amore, alla passione e alla morte. Colore che un po’ ricorda il celebre cappotto scarlatto della bimba di Schindler’s list di Spielberg: ed il riferimento cinematografico risulta tutto fuorché azzardato se si pensa alla scelta delle musiche, tutte riprese da film.

Tragedia e sorriso, tenerezza e dolore. Si ride e sipiange guardando Stones. Il tema centrale è quello della Shoah, anche affrontato con scherzi e momenti comici. Com’è possible? La chiave fiabesca e poetica è l’ovvia risposta. Ecco come un filo spinato possa trasformarsi in un sorriso generale. Un’altra domanda: non è rischioso sviluppare un tema così doloroso e serio cercando fi ra scaturire il sorriso? «Anni fa un giornalista mi fece questa stessa domanda. Io risposi: “Lei come vede la fine della sua vita? Crede che un giorno morirà?”. Ovviamente la risposta fu “sì’’. Dunque, conclusi, la sua intera vita è una tragedia, ma ciò nonostante non le è impedito di ridere nel mezzo». Perché in fondo, ci rivela Tzafrir, la commedia non è altro che una tragedia con un lieto fine: ciò che li differenzia è la conclusione. Ed avendo un lieto fine, Stones non è la rappresentazione di una tragedia.
Ritorna con forza il simbolismo che ha dato origine a tutto questo: la straordinarietà di quelle stesse pietre, nate per celebrare la malvagità e l’etnocidio, ora innalzate a perpetuare il ricordo di un’azione coraggiosa e l’inaudita forza di Mordechai Anilevitch, Marek Edelmann e di tutti coloro che vollero ribellarsi.

Quelle pietre che formano il gran memoriale di Varsavia, oggi sono l’emblema e il paradigma della possibilità di cambiare, spiega Micol Pietra, responsabile delle relazioni con il pubblico all’estero e artefice della tournèe italiana.
L’intricata miscela di simboli e figure è speculare alla linearità della storia, che fila chiara e semplice. E c’è un perché: «Spesso alla fine della messa in scena molti spettatori ci chiedono il significato di alcuni passi, perché vogliono apprendere ogni cosa e capire il senso profondo. Noi rispondiamo sempre che non è necessario capire davvero tutto: un insegnante che spiega per l’ennesima volta l’Olocausto e ciò che è accaduto ai suoi alunni, e dice di aver capito, ci turba». Non è quindi necessario comprendere davvero quello che si osserverà: uno stesso simbolo ha molteplici spiegazioni, non c’è univocità, tutto dipende dalla sensibilità del singolo. E così le maschere d’ariete o di pecora, che i personaggi della pièce indossano, possono essere interpretate come simbolo di forza, oppure di omologazione o da capro espiatorio (non si diceva, negli anni Cinquanta, che gli ebrei andarono a morire “come pecore al macello”?).