di Nathan Greppi e Roberto Zadik
Film sulla Shoah, da “La lista di Schindler” a “La vita è bella” ne sono stati fatti tanti ma nessuno dal punto di vista dell’infanzia, a parte “Il bambino col pigiama a righe” che però riproduceva l’angusta quotidianità dei lager e non si soffermava sulla paura, la fuga, l’angoscia di chi deve scappare per salvarsi la vita, di chi da piccolo deve crescere in fretta e affrontare peripezie che nemmeno i grandi saprebbero fronteggiare.
A questi si aggiunge ora Il viaggio di Fanny, film distribuito dalla Lucky Red nelle sale italiane il 26 e il 27 gennaio. Tratto da una storia vera, dalla turbinosa infanzia di Fanny Ben Ami, interpretata da una straordinaria Leonie Souchaud, il film è uno dei pochi film francesi sulla Shoah – da ricordare il commovente “Arrivederci ragazzi” di Louis Malle – diretto con mano sicura e tratti di poesia e di vena psicologica e empatica spiccata dalla brava Lola Doillon e co-prodotto dal bravo regista ebreo francese Cedric Klapisch, nome poco noto nel nostro Paese ma star d’oltralpe che aveva diretto la piacevole commedia “L’appartamento spagnolo”.
La trama
Siamo nella Francia occupata: la tredicenne ebrea Fanny Ben-Ami (Léonie Souchaud) è costretta a badare alle due sorelle dopo che i genitori, prima di essere deportati, hanno permesso loro di nascondersi assieme ad altri bambini ebrei. La situazione peggiora man mano che i nazisti iniziano a perlustrare tutta l’area per catturare tutti gli ebrei rimasti, e i bambini si ritrovano a dover fuggire, con l’aiuto di Madame Forman (Cécile De France) ed Elie (Victor Meutelet).
Tuttavia, nel momento in cui si ritroveranno senza adulti di riferimento i bambini, guidati da Fanny, dovranno fare affidamento sulle loro forze per raggiungere il confine svizzero prima che i nazisti li prendano. Nel corso della storia, essi cercheranno di affrontare molti pericoli sia da soli che con l’aiuto occasionale di adulti di buon cuore, e al tempo stesso proveranno a rimanere nell’animo ciò che sono: bambini.
Ma come raccontare la tragedia dell’occupazione nazista in Francia e dal punto di vista dell’infanzia senza scadere nel patetismo, nella retorica e nei facili luoghi comuni sui più piccoli e sul mondo ebraico in generale? Come ha dichiarato la regista francese, che ha lavorato oltre che con Klapisch anche col bravo cineasta austriaco Michael Haneke, la riuscita del film è derivata dalla scelta accurata dei giovani attori, “alcuni dei quali avevano già avuto esperienze come attori” ha specificato la Doillon “siamo andati in giro fra Francia e Belgio e mi sono permessa di modificare la sceneggiatura per adattarla ai singoli bambini. E infatti l’esperimento ha funzionato egregiamente con un grande equilibrio di toni, atmosfere e dialoghi, che non annoia mai e tiene sul filo della suspense lo spettatore per un’ora e mezza, dosando poesia, dramma, storia e brevi e incisivi slanci di emotività.
Bellissime le scene quando i bambini parlano e scherzano fra di loro, quando giocano a pallone e si rincorrono negli splendidi boschi fra Francia e Svizzera e le descrizioni psicologiche molto fini della coraggiosa piccola Fanny, nonostante, come ha detto la Doillon la piccola attrice protagonista non avesse “alcuna esperienza precedente al film” che si batte fino all’ultimo per mettere al sicuro i suoi giovani compagni di colonia, fra cui ci sono anche due bambini molto piccoli.
Molto efficaci anche le interpretazioni dei pochi adulti della pellicola, fra cui spiccano le due educatrici che si occupano dei bambini nella colonia, come Madame Froman, interpretata da Cecile De France già collaboratrice di Klapisch ne “L’appartamento spagnolo” e che rischiarono in prima persona falsificando i documenti dei piccoli e Stephane De Grodt, nella parte di Jean. Fra i bambini, oltre alla Souchaud, anche il piccolo Victor che ha un rapporto tormentato e profondo con Fanny e Diane, Anais Meiringer. Costruendo una trama abile fra indagine psicologica e ricostruzione meticolosa delle vicende, ne deriva un gran bel film che mischia commedia, dramma e film d’azione pieno di colpi di scena e di sequenze cariche di pathos e di emozione.
È indicativo il fatto che, come nei recenti casi de Il figlio di Saul e Il labirinto del silenzio, ci troviamo difronte un altro film sulla Shoah avente un regista non ebreo, segno che essa è diventata parte della memoria comune di tutto l’Occidente. Il che in realtà dovrebbe preoccuparci ancora di più, dal momento che i fatti narrati non fanno semplicemente parte di un lontano passato: infatti, a molti spettatori può venire naturale paragonare i furgoni dove gli ebrei si facevano nascondere con i barconi dei migranti di oggi, e il fatto che tali eventi stiano riemergendo dovrebbe aiutarci a riflettere maggiormente sul significato del Giorno della Memoria, allora come oggi.