di Roberto Zadik
La sua scomparsa, il 23 luglio del 2011 è stata il classico “fulmine a ciel sereno”, improvvisamente e in quei 27 anni che sembrano una condanna comune a diverse rockstar, da Jim Morrison, a Jimi Hendrix, a Kurt Cobain, a Brian Jones fondatore dei Rolling Stones. Ebbene, anche Amy Winehouse è entrata in quel triste club di morti giovani, belli e dannati. Come si diceva ai tempi degli anni ’70.
La sua voce potente e sensuale, quelli occhioni verdi da gatta sorniona e quel fascino fragile e conturbante sono passati alle cronache dei giornali assieme ai tanti scandali, eccessi e dipendenze da droghe e da alcol.
Ma cosa c’entra la Winehouse con questo mio blog? Tantissimo, perché era ebrea inglese di famiglia ashkenazita bielorussa, la nostra Amy alla quale ho dedicato diversi articoli e approfondimenti radiofonici quando conducevo “ProZadik” sulla web radio Jewbox, trasmissione dedicata a grandi musicisti ebrei, palesi come Leonard Cohen e Bob Dylan e nascosti, vedere lo special “Jewrock” qui su Zadikshow. Fra i nascosti c’era questa artista descritta dal suo produttore Nick Gatfield come “la tipica ragazza ebrea del parte Nord di Londra” e vedere le foto del Bar Mitzva del fratello Alex fa impressione, come, però in negativo, la sua volontà di farsi cremare, cosa estremamente contraria ai dettami della legge ebraica.
Amy era una ribelle, del resto, a scuola si comportava da maschiaccio, anticonformista, ironica e insofferente, Vergine ascendente Gemelli, nata il 14 settembre 1983. Animo irrequieto e audace, a dieci anni si cimentava già nel Rap e nella musica come sua prima passione, forandosi da sola il naso con un piercing e riempiendosi di tatuaggi. Studiare non le piaceva, impertinente e un po’ aggressiva, ebbe vari problemi di violenza commessa e subita, e iniziò subito strimpellando la chitarra, cimentandosi alla voce, rivelando fin da adolescente grandi doti vocali. La strada sembrava già spianata e il successo arrivò presto nella sua vita breve, scatenata, eccessiva. Il 2003 fu il suo anno rivelazione con un album dal titolo secco e diretto “Frank” che a 20 anni la rese subito una star. La sua voce venne paragonata a Macy Gray, la sua vita per molti versi somiglia a quella di Janis Joplin, morta alla stessa età, bisognosa di attenzione e divisa fra ribellione e fragilità come molti talenti. Amy Winehouse è stato un personaggio unico nel suo genere ed era da tempo che nella scena rock un po’ piatta di questo 21esimo secolo non si vedeva una vera icona “sesso, droga e rock n’roll” in pieno stile anni ’70 che però cantava canzoni melodiche e un po’ retrò.
Il vero apice della sua carriera arriva con un lavoro sinistro ma costellato da canzoni splendide come “Back to black” e i suoi ultimi cinque anni, dall’uscita del cd, sono memorabili ma estremamente agitati. Guadagna una quantità esorbitante di denaro, tiene molti concerti, alcuni totalmente afona e visibilmente provata dai vizi, altri splendidi, balza in vetta alle classifiche con la scatenata “Rehab” (Disintossicazione) dove, come segno premonitore della sua tragica fine, grida ai quattro venti di rifiutare qualsiasi trattamento.
Vero capolavoro è la malinconica “Back to Black” dove nel video è alla guida di un funerale. Ci sono stati artisti che hanno previsto la loro fine, da Jim Morrison a Kurt Cobain e anche per la Winehouse è stato lo stesso. Legata al misterioso e inquietante personaggio di Black Fielder Civil, Ariete, 35 anni, che sposa a 24 anni nel 2007, descritto dal padre della vocalist che ha dedicato una struggente biografia alla figlia scomparsa, un “manipolatore” e che nel film sulla cantante “Amy”, parla a bassa voce, quasi sussurrando.
Infido, violento, spacciatore e disoccupato, sarà Fielder a rovinare la Winehouse, che per una strana ironia della sorte, porta un cognome che significa “vineria” e che morirà alcolizzata a casa da sola il 23 luglio 2011 trovata stesa esanime sul letto dalla sua guardia del corpo. Fiedler tenterà il suicidio, chiedendo ripetutamente scusa a Amy e alla famiglia, ma risposandosi e diventando padre di due figli avuti dalla sua seconda moglie Sarah Aspin.
Nata da una famiglia della media borghesia ebraica inglese, padre tassista e madre farmacista, Amy Winehouse, non fu certo una persona facile, fra alcolismo, anoressia, aggressioni e problemi legali, ma pare fosse generosa, altruista e dedita a svariate cause umanitarie e di beneficienza. Morta prima di uscire con il suo terzo album, la sua voce, il suo look appariscente con quelle acconciature anni ’50 e le collaborazioni con i grandi crooner alla Dean Martin, come Tony Bennett. Nella sua breve e fulminante carriera musicale, mi vengono in mente brani emozionanti come “Wake up alone” e la sua espressività disperata e vibrante ha influenzato diversi artisti contemporanei, da Adele, a Rihanna, da Duffy a Giusy Ferreri. Il suo stile e la sua personalità resteranno nel tempo e quel mix di jazz, soul e pop che l’hanno resa celebre. Nata da famiglia di origine bielorussa, i nonni erano di Minsk, non religiosa ma tradizionalista, celebravano ogni venerdi sera il Kiddush e ha frequentato la scuola ebraica anche se non le interessava per niente la religione anche se una volta disse “essere ebrea per me è più che altro fare parte di una grande famiglia piuttosto che accendere le candele o dire una benedizione”. Nel 2013 sulla Winehouse al Museo ebraico di Londra è stata organizzata, una bella mostra “Amy Winehouse, a family portrait” che mostra immagini inedite sull’identità ebraica dell’artista che spesso, come si vede nel documentario, portava un Maghen David che le pendeva dal collo durante i suoi concerti. Morì prima dell’uscita del suo terzo album, Lioness Hidden Treasure lasciando un grande vuoto musicale, artistico e umano e ricordata da una fitta schiera di collaboratori, colleghi e parenti, come a modo suo sentimentale e molto legata alla famiglia e alla sua adorata nonna Cynthia, morta nel 2006 di cancro al polmone e sepolta assieme a lei nel cimitero di Golders Green.