di Roberto Zadik
In Italia pochi lo conoscono, ma Arik Lieb Einstein nel suo Paese è un’icona, un “pilastro” della musica e della cultura dello Stato ebraico. Simbolo di profondità, delicatezza, introspezione, molto simile al nostrano De Andrè, anche la tonalità vocale e alcuni temi intimisti e introspettivi, Einstein è stato uno dei protagonisti assoluti della canzone d’autore per quasi mezzo secolo. Una vera leggenda, assieme ad altri straordinari autori come Shalom Hanoch, suo intimo amico e “pioniere del rock” israeliano, al vulcanico e schivo paroliere Ehud Manor, con le sue duemila canzoni e al poeta della Galilea Meir Ariel una delle voci poetiche e canore più magnetiche e ispirate del Novecento.
Sono passati sei anni dalla sua morte, in quel 26 Novembre 2013 quando questo carismatico cantautore ha lasciato questo mondo colpito da un aneurisma aortico a 74 anni. Definito la “quintessenza del sabra”, “la voce di Israele” come lo soprannominarono vari critici e importanti elogi istituzionali come quello del premier Nethanyahu che disse “Arik, tu sei Israele”, è uno degli artisti più amati e apprezzati ancora oggi, da tre generazioni di israeliani. Come tanti artisti, iniziò nel Servizio Militare, seguendo le orme del padre attore, ereditando quel background yiddish ashkenazita della sua famiglia d’origine ma reinventandolo in un nuovo pop israeliano che da lui cominciò a diffondersi (la storia completa nel mio volume Isramix, Proedi 2018) reinventandosi in vari modi. Molto dotato negli sport e dal fisico atletico, avrebbe potuto diventare campione di salto in alto, ma scelse la strada scintillante e incerta della musica. Prima come crooner e cantante di riadattamenti “ebraici” di famosi classici anni ’60, da Yesterday dei Beatles divenuta Rak Etmol (Solo ieri) fino a una bellissima e davvero insolita versione di Azzurro di Celentano diventata Amru Lo (gli hanno detto) per poi affermarsi dagli anni ’70, come ricorda il sito www.allmusic.com, sempre più un paroliere-cantante, scegliendo come suoi “angeli custodi” perenni, il chitarrista Itzhak Klepter e il compositore Miki Gavrielov che scrisse molte sue canzoni, formando con Einstein un duo inossidabile di parole-musica che ricorda molto il sodalizio italiano Mogol-Battisti.
Molto israeliano, ma anche estremamente critico e nostalgico verso i “bei vecchi tempi” dello Stato di Israele, poeta di alto livello dal linguaggio diretto e efficace, le sue canzoni sono uno specchio lucido e emozionate della società israeliana del secondo Novecento, dal suo album anni ‘60 Mazal Gdi (Segno Capricorno, era nato il 3 gennaio) fino agli ultimi lavori e del suo complesso mondo interiore. Delicatezza e classe, magnetismo, quello sguardo penetrante e il carisma schivo che lo contraddistinsero e una fantasia inarrestabile nel continuare a sfornare canzoni, a esibirsi anche se alla fine degli anni ’70 smise i concerti preferendo le apparizioni tv e affrontando una serie di tematiche sempre a ritmo di pop melodico.
Nato nella Tel Aviv mandataria, il 3 gennaio 1939, iniziò come attore, divertente il suo sketch sulle immigrazioni in Israele assieme all’amico Uri Zohar per poi dedicarsi alla musica. Infatti Einstein militò nella band della Brigata Militare Nahal, iniziò a metà degli anni Sessanta con due band, prima con il Gesher Hayarkon trio e poi con gli High Windows ma il vero successo arrivò con la carriera solista. Dal 1967 con la poetica Ani ve atà (Io e te cambieremo il mondo) la sua carriera ha cominciato a spiccare il volo come l’uccello della commovente “Uf gozal” (Vola pulcino) delicata metafora della vita. Successi, collaborazioni importanti, duetti come quello con gli amici Shalom Hanoch, nella struggente Guitara ve Kinor (Chitarra e violino) e la popstar Shlomo Artzi (che quest’anno compierà proprio il 26 del mese 70 anni) nella nostalgica Hozrim la baita (Torniamo a casa) dove questi due giganti ripercorrono la loro giovinezza e argomenti importanti, da brani sentimentali a testi impegnati come la biblica Hagar o la commovente Hu hazar betshuvà (Lui è tornato alla religione), una delle sue canzoni più belle a omaggi politici come le canzoni su Gilad Shalit Kshe ata kan e Livchot lechà (Piangere per te) scritta da Aviv Geffen per la scomparsa di Itzhak Rabin e cantata con grande trasporto da questo artista.
Interprete ma anche autore di canzoni, raramente scrisse anche le musiche, affidate a Gavrielov o a altri, fedele e abitudinario suonò sempre con gli stessi musicisti, sposato due volte, la prima moglie Alona morì di tumore, padre di famiglia, quattro figli e personaggio mite e lontano dagli scandali e dagli eccessi, si distinse per lucidità analitica e profondità intellettuale mantenuta con misura e riservata sobrietà e la sua avversione a qualsiasi pomposità o grandiosità come ha ricordato Ariel Hirschfeld su Haaretz. Con il suo modo di cantare e di interpretare le canzoni, Arik ha lasciato un segno indelebile, come diceva in quel suo classico Ani ve ata, nel suo piccolo ha cambiato, non il mondo, ma sicuramente la musica israeliana che da lui non è più stata la stessa. Lo dimostrò anche il suo funerale in cui mezza Israele ne pianse la scomparsa elogiandone il grande contributo umano e artistico.