Bogdanovich e Levinson, due icone della commedia ebraica americana

Taccuino

di Roberto Zadik

Se ve li dico così, questi due cognomi non dicono poi molto, Bogdanovich e Levinson, ma stiamo parlando di due grandi cineasti ebrei americani che, superati i settant’anni, tornano alla carica con due scatenate e briose commedie che vivacizzeranno con il loro brio questo autunno.

Due storie a modo loro simili ma che trattano di produttori, di cinema e di spettacolo in maniera originale e irriverente. Cominciando con Barry Levinson, questo bravo regista 73enne (Ariete) arriva nelle sale italiane col suo nuovissimo Rock the Casbah (il titolo è una citazione musicale palese della bellissima canzone dei Clash del 1982 realizzata dalla band capitanata dallo scatenato Joe Strummer), un film che si preannuncia movimentato e divertente. La storia è quella di un produttore rock alla deriva, interpretato dal grande Bill Murray, Vergine, 65 anni, ex Ghostbuster rinato professionalmente grazie a Sofia Coppola e al suo Lost in Translation, che disperato va nientemeno che in Afganistan in cerca di fortuna.

Una trama sarcastica e sgangherata, visto che gli americani in quel Paese avevano fatto la guerra ai Talebani. Murray, nei panni dello stralunato manager Richie Lanz, nel cast assieme a un espressivo Bruce Willis, viene mollato dalla sua cantante di punta e si trova a ripartire da zero. Lanz viene così coinvolto in una serie di gag e situazioni assurde e si innamora della bella Saleema, ragazza di Kabul che vorrebbe diventare una star della musica. Accompagnato da una fantastica colonna sonora, come altri celebri film americani, da Forrest Gump a Pulp Fiction, The Doors, Almost Famous, la pellicola viene diretta da Levinson con mano solida e ritmo incalzante. Non molto conosciuto nel nostro Paese, questo regista ha girato due grandi film come il campione di incassi Rainman con uno stratosferico Dustin Hoffman e un discreto Tom Cruise al suo fianco e un bel film come Good Morning Vietnam con il travolgente e istrionico Robin Williams nella parte di un deejay che nell’inferno del Vietnam tirava su il morale dell’esercito americano con la sua formidabile verve. Ebbene dopo questi due exploit, Levinson, di origini russe e nato a Baltimora, con due matrimoni e cinque figli alle spalle, si è arenato nelle secche della banalità con una serie di film, a mio avviso, abbastanza mediocri, dallo stralunato Toys sempre assieme al suo amico Williams, fino al discreto Sleepers che nonostante il titolo (“dormiglioni”) è un’opera vivace con un cast di stelle, da De Niro a Brad Pitt. E dopo anni di grigiore artistico ora sembra aver ritrovato la grinta e l’ispirazione di un tempo.

Sempre in tema di grandi nomi del cinema, un po’eclissati e abbastanza ignoti  fra i giovani, attira subito l’attenzione il nuovo film del grande Peter Bogdanovich, Leone ascendente Pesci, Tutto può accadere a Broadway. L’ultima fatica del regista e cinefilo 77enne ci riporta nel passato, ai tempi delle cosiddette “screwball comedies”(commedie svitate) stravaganti, leggere e raffinate. Per intenderci, restando in ambito ebraico americano per coerenza di blog, le pellicole di Ernst Lubitsch, regista ebreo tedesco autore di opere eccezionali come Ninotchka e Vogliamo vivere! o di George Cukor, regista ebreo newyorchese di origine ungherese, autore di tanti riuscitissimi film fra cui il celebre My fair lady, capolavoro con Audrey Hepburn, e l’ultima prova della tormentata e talentuosa Marylin Monroe Qualcosa deve accadere dal titolo profetico visto che durante le riprese la giovane e bella protagonista morì a soli 36 anni, il 4 agosto 1962 in circostanze mai chiarite.

Tornando a Bogdanovich, chi è costui? Un regista emarginato per troppi anni, come tanti talenti peraltro, che le vecchie generazioni ricordano per filmoni riflessivi come Ultimo spettacolo, davvero molto bello, e per lavori più leggeri come Ma papà ti manda sola? il suo film più di successo con la bravissima Barbra Streisand in veste brillante e quasi comica. Poi, dopo questi luccichii che la fama spesso consegna e sottrae nelle sue giravolte, l’oblio. Come per Levinson dopo gli anni Ottanta. E ora Bogdanovich, di padre serbo ortodosso e di madre ebrea russa, riappare magicamente. La pellicola, prodotta dal bravo Noam Baumbach, autore del riuscito Giovani si diventa con Ben Stiller, promette di essere una scoppiettante carrellata di situazioni esilaranti e dialoghi pungenti in tipico umorismo “jewish american”. Ebbene, protagonista della vicenda ambientata a New York è Owen Wilson nei panni dell’eccentrico regista Arnold Albertson che, dopo i suoi successi, arriva nella Grande Mela per il suo nuovo film, ma in mezzo alle riprese ne succederanno di tutti i colori. Fra escort, psicanalisti folli e personaggi assurdi ci sarà da ridere, per un regista come Bogdanovich che prima di tutto è un raffinato cinefilo e nel suo film abbonda di citazioni e riferimenti a grandi autori del cinema, da Woody Allen a Frank Capra.