Ciao Lou, genio ribelle

Taccuino

di Roberto Zadik

Quando se ne va un grande come Lou Reed un senso di vuoto ci prende e non si sa da che parte cominciare nel ricordo, si cerca di concentrarsi sulla sua arte e sul suo carisma, sul suo carattere difficile e affascinante, di evitare la retorica e la banalità, cose che questo schivo, ombroso e eccessivo rocker ha sempre detestato nella sua vita durata solo 71 anni. Morto da poco e all’improvviso, per un trapianto al fegato di cui per ora non si sa molto altro, il cantautore di religione ebraica, difficile immaginarselo a shabbat con una kippa sulla testa a mangiare kneidel e kugel parlando yiddish, ha rappresentato per quasi cinquant’anni un simbolo di trasgressione, originalità e sincerità per tre generazioni di fans che ieri, me incluso, che avevo cominciato una mia trasmissione proprio parlando di lui, sono rimasti attoniti alla notizia della sua scomparsa.

In un anno in cui per una strana coincidenza, personaggi chiave del mondo dello spettacolo si spengono in successione, dal tastierista dei Doors, Ray Manzareck, a Little Tony, a Bevilaqua, a Jimmy Fontana, a Jannacci e Califano, tutti vissuti in quelli anni Settanta del Novecento, anche Louis Allen Reed, questo il suo vero nome, ci lascia improvvisamente e in maniera misteriosa in linea con la sua enigmatica personalità.

Lanciato da Andy Warhol suo amico-amante e mentore, pittore e uomo d’affari, guru della pop art e scomparso nel 1987, anche lui nato nella sua adorata New York, della quale ci ha mostrato il suo “wildside”, il lato selvaggio, cantante assieme alla vocalist tedesca Nico Paffgen, scomparsa a 50 anni cadendo in bicicletta a Ibiza nel 1988, con cui assieme alla batterista Maureen Tucker e al bassista Sterling Morrison formò i leggendari Velvet Underground, nel lontanissimo 1966 il giovane, ribelle e scostante Lou Reed si mostrava al mondo indossando i suoi inconfondibili occhiali scuri “per evitare” come ha detto “la vista del pubblico” e cantando tematiche inusuali e spiazzanti e versi che colpiscono nel profondo. Lo dimostrano brani come “White light/white beat”, su un tipo di sostanza allucinogena e “Heroin”, uno dei suoi più celebri, dove Reed con la sua inconfondibile voce un po’ atona e secca cantava che sotto effetto di eroina si sentiva come “il figlio di Gesù” e canzoni come “Venus in furs” (Venere in pelliccia) in cui alludeva alla sua omosessualità con metafore masochiste e sofisticate decisamente sconvolgenti per l’America “buonista” e “figlia dei fiori” degli anni Sessanta nel pieno dell’era hippie e di atmosfere sognanti e pacifiste da cui artisti come Reed, Dylan e i Jefferson Airplane hanno cominciato a distanziarsi notevolmente evocando il lato cinico e “dark” della scena americana.

Poi l’anno dopo sarebbero arrivati i Doors e lo scatenato Jim Morrison altro ribelle matricolato che Reed detestava, forse anche per le vistose differenze caratteriali, in quanto il cantante dei Doors sul palco era decisamente più teatrale e sfrontato, saltava sul palco e fingeva svenimenti e acrobazie e si scontrava con le forze dell’ordine e il pubblico mentre Lou era più rigido e compassato in concerto, quasi assente imbracciando la sua chitarra e salutando a malapena il pubblico anche se aveva in comune con lui e con Bob Dylan, la poesia, il nichilismo, il filone anti-buonista e intellettuale e il tema della morte ricorrente, si pensi ai due lunghi capolavori morrisoniani “The end” o “When the music’s over”.

Ebbene con la morte di Reed, parafrasando in italiano quest’ultima canzone, “la musica è finita”? Questo non può certo dirsi ma sicuramente come nel caso delle scomparse di altre icone rock, si pensi a Morrison, a Jimi Hendrix nel 1970 o a Freddie Mercury nel 1991 e a Joey Hyman, cantante punk dei Ramones, anche lui ebreo, un bel pezzo di storia ci abbandona per sempre. Non solo per i Velvet e per inni rock come la dolcissima “Sunday Morning” brano d’apertura del loro album di debutto, vero capolavoro, con la banana in copertina e lo sfondo bianco, quello delle già citate “Venus in Furs” (colonna sonora del film “The Doors” di Oliver Stone) e di “Heroin”, ma intendo ricordare anche e soprattutto la straordinaria carriera solistica di Reed, cominciata nel 1972 con il capolavoro “Transformer” prodotto dall’altro amico e flirt David Bowie quando furoreggiava con capelli rossi e look androgino nei panni di “Ziggy Stardust”, alieno caduto per sbaglio in questo mondo, e durata fino ad oggi.

Un animo tormentato e inquieto quello dell’ebreo ashkenazita americano Lou Reed, schivo e sarcastico ma con tanti amici, dal suo professore correligionario Delmore Schwartz che gli insegnò l’amore per la letteratura e la filosofia alla Syracuse University, a Warhol, a David Bowie e a Mick Jagger o a Iggy Pop, allo scrittore Paul Auster, apparve in un suo film “Blue in the face”, agli attori della “Factory”, come Gerard Malanga e la modella Edgie Sedwick, laboratorio artistico e creativo di Warhol, del quale si raccontano splendori e miserie nella bellissima biografia di Reed scritta dal giornalista Victor Bockris. In questi anni di carriera, fra droghe di vario genere, le ha provate tutte, crisi di nervi e depressioni, e due matrimoni, uno di questi con la sua “collega” la cantante Laurie Anderson, il cantautore ha saputo reinventarsi dal filone impegnato e profondo anni Settanta, quello di successi come  “Satellite of love”, “Perfect day” struggente ballata ripresa anche nel film “Trainspotting”, a “Walk on the wildside” (rifatta anche dalla nostrana Patti Pravo con la cover “I Giardini di Kensington) fino ad album degli anni ottanta e a sonorità meno graffianti e più pop come nella bellissima “Legendary hearts” e a dischi interessanti come “Ecstasy”, il titolo la dice lunga sul personaggio, e “Lulu” in collaborazione coi Metallica, suo ultimo album del 2011.

Tutto questo passando da brani graffianti e a “tutto rock” come “Vicious” dedicata a Warhol con toni critici e polemici, “Sweet Jane” o “Wild Child” a dolcissime ballate di grande intensità come “She’s My best friend”, “The Ocean”, da brivido, “Lisa says”, tante sue canzoni hanno nomi femminili, c’è anche “Caroline says” e “Stephanie says” o “Coney island baby” titolo anche del suo omonimo album dedicato alla sua New York. Ebbene riassumere la personalità e la carriera di Reed è davvero un’impresa difficilissima, lo stesso avviene per altri “giganti” come Leonard Cohen, Bob Dylan, Billy Joel, tutti di religione ebraica come lui, sia per la complessità e la versatilità delle loro ispirazioni, per Lou si passa da Edgar Allan Poe, al quale dedicò un suo bel disco “The Raven” (Il Corvo), alle strade della Grande Mela, coi problemi sociali di solitudine, droga, male di vivere che lo avvicinano tanto a Pasolini e alle sue storie di “Ragazzi di Vita” e al neorealismo.

Ma Lou Reed cosa aveva di ebraico? Questa è la domanda più complessa, sicuramente anche il rapporto con la tradizione e la religione furono decisamente tormentati, dopo che i genitori entrambi ebrei, lo sottoposero nientemeno che a un elettroshock perché ingenuamente credevano che servisse come “rimedio” alla sua omosessualità, e questo provocò fra i tanti drammi un progressivo allontanamento dalla famiglia e alcune risposte sarcastiche e apparentemente “antisemite” rispetto alla propria identità, in linea con quella tradizione di “self hating jews” e al cosiddetto “odio di sé” anche se come ironicamente sottolineò “siamo la gente migliore sulla faccia della terra” anche se “non conosco altri ebrei”. Sempre lapidario e un po’ inaccessibile, Lou Reed, che spesso e volentieri rifiutava le interviste o rispondeva stizzito o a monosillabi a domande banali, anche sulla sua vita privata e la propria identità ma alcune tracce di questo suo remoto “lato ebraico” si possono trovare in brani come “Mr Waldheim” in cui se la prende con Kurt Waldheim accusato di essere una spia della Wermacht nazista e nella versione musicale del “Cantico dei Cantici” di Re Salomone, lo “Shir ha shirim” realizzata da Reed recentemente assieme al musicista John Zorn, anche lui ebreo, che ha collaborato col grande Leonard Cohen. Ovviamente il misterioso e sardonico Lou Reed non parlava mai delle sue radici come della sua vita privata in genere, che fu molto movimentata, e a chi gli chiese di che religione fosse, una volta rispose “Il mio Dio è il rock n’roll”.