Dylan non ritirerà il Nobel: genialità e stravaganze di una leggenda della canzone ebraica moderna:

Taccuino

di Roberto Zadik

La notizia della non partecipazione alla cerimonia di consegna del Nobel dopo un mese di silenzio sta facendo il giro dei tabloid e dei gossip di mezzo mondo, ma Zushe Ben Abraham meglio noto come Bob Dylan non è nuovo a queste stravaganze e nella sua lunga carriera, durata più di mezzo secolo, è in giro dal 1961, ne ha fatte di cotte e di crude. Anche per questo è un personaggio che fa sempre parlare di sé, anche quando sta zitto, anche nelle sue celebri sparizioni e silenzi seguiti poi da magici ritorni o da eccentricità caratteriale.

E così il geniale “menestrello di Duluth” a 75 anni torna a far parlare di sé, liquidando il riconoscimento svedese al suo genio poetico e letterario definendosi “onorato ma impossibilitato a partecipare alla premiazione”. Chissà che impegni avrà questo imprevedibile camaleonte sul quale si sono scritte valanghe di pagine e di libri e di cui sappiamo ancora oggi davvero poco. Qui in questo articolo cerco di analizzarla, visto che David Robert Zimmerman, questo il suo nome, è uno dei miei artisti preferiti della canzone ebraica americana e internazionale.

Ben lontano dalla sobrietà dell’appena scomparso Cohen e dagli eccessi di Lou Reed, suoi colleghi e correligionari, Dylan, Gemelli ascedente Sagittario, ha un carattere decisamente particolare e sembra avere un rapporto a dir poco complesso con la fama e le interviste e le catalogazioni. Scorbutico, sarcastico e irrequieto, celebri furono le sue fughe da casa, le sue tante donne, da Joan Baez sua amica e collaboratrice che l’ha definito “una delle persone più complicate che abbia mai conosciuto” nel bel documentario di Martin Scorsese su di lui No direction Home, alla moglie con cui è tornato dopo anni di separazione e tradimenti e i suoi bruschi cambi di genere e di scalette ai concerti.

Amico di Johnny Cash, guru del folk americano e di Woody Guthrie cominciò con un genere molto melodico, a tratti un po’ soporifero, mischiando canzone popolare americana e motivi esistenziali e ebraici, celebri “Blowin in The wind” che si riferisce al valore della domanda nella tradizione ebraica e “A hard rain is gonna fall” ricca di riferimenti colti e letterari. Poi dal 1965 prese in mano la sua chitarra elettrica e con grande sconvolgimento del suo pubblico folk passò al rock psichedelico, conobbe John Lennon e i Beatles, provò varie sostanze stupefacenti dicendo in una delle sue sornione interviste “Le droghe non hanno mai avuto molto successo con me”.

La fase psichedelica e rock durò per 5 anni, secondo me il miglior periodo di Dylan dove sfornò canzoni fantastiche come “Subterranean Homesick Blues”, “Mr Tambourine Man”, piuttosto che due sue hit di punta come “Like a Rolling Stone” inno di vagabondaggio e libertà, era sempre in giro, e la romantica “Just like a woman” e il suo brano anti-sentimentale “It ain’t me babe” o la bellissima “Alla long the watchtower” rifatta in una splendida cover da Jimi Hendrix.  Molto ironico e a volte divertente e spassoso, suscitava le ire di produttori e giornalisti, negava interviste o si inventava risposte surreali e provocatorie, sfotteva il pubblico adorante con battute come “Non vi credo siete dei bugiardi” . Come Lou Reed, Lucio Battisti o Luigi Tenco o il regista Stanley Kubrick, celebre per le sue paranoie e fobie,  non aveva un buon rapporto con la fama e con la stampa e nonostante abbia ottenuto un grande successo, non ha mai mostrato particolare entusiasmo, anzi, spesso timido o suscettibile e non è un cantautore per tutti. La sua voce, i suoi temi, il suo impegno ieri come ancora di più oggi, malgrado gli elogi della critica suscita perplessità fra la gente comune.

Tanti i suoi talenti, oltre che cantautore è anche un bravo pittore – dipinse la copertina di un suo album “Planet Waves e anni fa sono stato a una sua mostra di quadri qui a Milano -, un poeta, la sua raccolta “Tarantula” è notevole e uno scrittore, ho letto con piacere la sua autobiografia “Chronicles” che purtroppo si è interrotta dopo il primo volume e c’ha provato anche nel mondo del cinema come attore e autore di colonne sonore, il suo classico “Knockin on the Heaven’s door” era nelle musiche per il film del bravo regista western Sam Peckimpah.

Incostante, volubile, inquieto, sempre in cerca di una sua verità che però è in costante mutazione, interessante anche il suo percorso religioso. Ora a quanto pare è vicino al movimento Chabad, ma alla fine degli anni Settanta si convertì al cristianesimo e poi, con lo suo stile indiretto, sornione, come se nulla fosse stato tornò all’ebraismo. Sempre senza spiegazioni, costantemente misterioso e mai particolarmente espansivo, vorace lettore e appassionato di arte e di cinema, Dylan ha segnato un pezzo di storia del Novecento, anche per questo gli hanno dato il Nobel ed è la prima volta che un cantautore vince un riconoscimento di tale portata, distinguendosi per il suo talento ma anche per questa sua personalità spigolosa e bizzosa. Un pacifista polemico, un poeta graffiante e sentimentale, un romantico ribelle, di lui si può dire tutto e il contrario di tutto, nemico di ogni certezza, categoria e classificazione perché per lui, come diceva in “Blowin in the wind” “la risposta soffia nel vento”.