di Roberto Zadik
Ancora oggi ben poco o nulla si sa della sofferenza degli ebrei dell’ex Unione Sovietica taciuta da anni di dittatura comunista, ma dai pogrom, ai gulag, alla recente guerra in Ucraina, gli ebrei di quelle zone ebbero una vita molto tormentata. Contraddistinta da grandi saggi come Rabbi Nachman di Breslav così come da tremende persecuzioni antiebraiche, fra fughe, assimilazione e forme di marranesimo, la travagliata storia dell’Ucraina e dei suoi ebrei, viene raccontata dal libro d’esordio di Lev Golinkin “Uno zaino, un orso e otto casse di vodka” (315 pp, Baldini e Castoldi, 18 euro)- Come tanti autori ebrei delll’Europa Orientale, da Roth a Kafka a Kraus fino a casi più recenti come i russi Shteyngart e Bezmogis, Golinkin ormai naturalizzato americano come avvenne anche per Isaac Asimov e altri, mischia commedia e tragedia, umorismo e dramma. Si tratta di un testo che, nonostante sia voluminoso e tratti temi dolorosi come immigrazione, sradicamento, persecuzione, scorre piacevolmente, descrivendo le difficili vicende famigliari che egli visse scappando da piccolo dall’ex Unione Sovietica alla volta dell’Occidente democratico e pacifico alla fine degli anni ’80. Analogamente al protagonista del bellissimo “Ogni cosa è illuminata” capolavoro di Jonathan Safran Froer trasformato in un bel film dal regista Lev Schreiber, Golinkin è ormai un americano, abita nel New Jersey e si è laureato a Boston, alla ricerca del suo passato e delle sue radici. Scappato dal giogo della dittatura sovietica e dell’antisemitismo a soli 9 anni, l’autore parte dalla rocambolesca fuga, con dieci valigette, 600 dollari e tanta speranza e paura mischiate all’unisono.
Ma chi sono stati i misteriosi benefattori che l’hanno aiutato a varcare la “cortina di ferro”alla volta di Vienna e poi degli Stati Uniti? Spinto dalla riconoscenza e dalla curiosità, l’autore deciderà di compiere un viaggio alla ricerca di chi l’ha salvato, tentando di ricomporre il suo frammentato puzzle interiore per conoscersi meglio e capire com’è stata possibile la sua miracolosa salvezza dalla barbarie e dalla violenza. Un libro attualissimo e interessante che con leggerezza di tocco ma profondità di contenuti svela misteri e sofferenze degli ebrei dell’ex blocco sovietico, molti dei quali dagli anni ’90 hanno deciso di fare aliyah o di emigrare in America. Figlio di un ingegnere e di una psichiatra, lo scorso febbraio, Golinkin, ha rivelato un carattere molto anticonformista, polemico e ribelle anche nelle sue interviste dichiarandosi contrario alle politiche restrittive di Trump sull’immigrazione e esprimendosi in maniera molto pungente sugli Stati Uniti e sul suo atteggiamento spesso vittimista e prepotente. L’autore in un’intervista al Washington Post ha sottolineato che “nonostante l’immagine aperta e tollerante americana, per lui e la sua famiglia non è stato per niente facile emigrare e che sua madre dopo 26 anni lì parla ancora con un forte accento russo e dopo essere stata una valente psichiatra si è trovata a ricominciare da zero come tanti altri immigrati.”Provenienti dalla cittadina di Kharkov, la famiglia Golinkin ha dovuto vivere di espedienti per tanti anni, come racconta lo scrittore anche nel suo libro, mettendo a fuoco varie riflessioni e tematiche importanti, dai rischi dell’odio e della violenza, all’incertezza dolorosa di chi fugge senza sapere dove andare, costretto a lasciare tutto. Divertente, ironico e pieno di battute, vista l’attitudine verso l’umorismo e il sarcasmo che Golkin ha dichiarato di “avere fin da piccolo”, il libro riunisce autobiografia e romanzo, storia e attualità. Si tratta di un’opera imporante, non solo come testimonianza ebraica di un Paese come l’Ucraina del quale non si sa molto per comprendere e apprezzare la bellezza della democrazia e i rischi che stiamo vivendo, di populismi, assolutismi e totalitarismi.