“Rabin-the last day”, mai uscito in Italia, il nuovo film di gitai all’Hashomer Hatzair

Taccuino

di Roberto Zadik

 

Con un regista  decisamente talentuoso ma estremamente  corrosivo come Amos Gitai non si può mai stare tranquilli e certamente non vale il famoso detto “vado al cinema per rilassarmi”. Con lui come con altri registi israeliani, ad esempio Eran Riklis col suo pungente “Il giardino dei limoni” , con la cantante Noa e le sue dichiarazioni pacifiste o le sparate anti governative del bravo cantautore Asaf Avidan, la polemica è assicurata.

Assieme a loro, questo cineasta rappresenta una delle “voci del dissenso” del mondo ebraico contemporaneo e una visione laica ma molto ebraica, israeliana e a modo suo legata e partecipe alla sua identità ma in modo personale, ribelle e estremamente schietta e critica. Un paradigma di un certo cinema israeliano, mi vengono in mente “Il valzer con Bashir” o “Lebanon” entrambi sulla Guerra del Libano, che dimostra come Israele sia un Paese molto più aperto e autocritico, a volte fin troppo, rispetto a tante nazioni, compreso il nostro Paese. Per questo suo spirito caustico, Gitai, ha subito varie censure nella sua lunga carriera cominciata negli anni ’60.

Però a livello cinematografico e artistico si vola sempre molto alto. Fastidioso il suo “Kadosh” dove se la prendeva con il mondo ortodosso, mentre pregevole ma sempre un po’ sarcastico il suo “Kedma-verso Oriente”,  bello ma un po’ lento “Kippur” sulla dolorosa guerra del 1973 sferrata dagli arabi contro Israele proprio nel giorno più sacro del calendario ebraico o molto brillante cortometraggio “The book of Amos” . Ma veniamo al film che non è una biografia, ma molto di più. L’anno scorso il cineasta 66enne, fra i personaggi d’Israele più famosi internazionalmente come Noa e i tre scrittori Grossman, Yehoshua e Oz, è tornato alla carica con “Rabin-The Last day”.

Cosa dire di questo film e quale la sua trama?

Si tratta di un vero “ pugno nello stomaco”, proiettato lo scorso 27 novembre per la prima volta in Italia presso l’Hashomer Hatzair, che nonostante duri due ore e mezza ti tiene incollato alla sedia come se fosse ricoperta di colla. Il 4 novembre del 1995, ormai 21 anni fa, il carismatico Primo Ministro Itzhak Rabin venne barbaramente ucciso da un ragazzo di 25 anni, studente universitario religioso, tale Yigal Amir che riuscì a aggirare la sicurezza e le forze dell’ordine nell’affollatissimo Rally di Tel Aviv sparando quattro colpi di pistola mortali.

Ma com’è stato possibile? La pellicola non tratta della personalità di Rabin ricostruisce meticolosamente la dinamica dei fatti, il clima politico e gli sconvolgimenti sociali prima e dopo l’assassinio ed è un prezioso affresco storico e emotivo di uno dei momenti più tesi per lo Stato ebraico. Si  comincia subito con un’intervista all’appena scomparso Shimon Peres. L’omicidio di Rabin, come ha dichiarato Peres, alla giornalista interpretata dalla brava Yael Abecassis, star di Kadosh, “l’omicidio di Rabin è stato il culmine di un periodo tremendo di tensioni e manifestazioni contro gli accordi di Oslo del 1993”. “Nonostante avesse ricevuto offese, minacce di morte, maledizioni da parte di estremisti” ha detto Peres, “Rabin ha mantenuto sempre un grande autocontrollo, comportandosi freddamente e con coraggio come se questo non lo riguardasse.” Noto per il suo valore militare e la sua riservatezza, Rabin non aveva un carattere facile e sapeva essere molto duro e impassibile.

Dopo gli accordi di Oslo e le concessioni territoriali che Rabin, Clinton e Arafat stipularono nel lontanissimo 1993, ero in terza Liceo, ma me lo ricordo come fosse ieri, in Israele la popolazione di destra e diversi gruppi religiosi ortodossi si scagliarono contro il premier. Nel film, Gitai mostra accuratamente tutte le proteste molto violente, la folla che brucia bandiere e addita Rabin a nazista, sbandierando effigi contro di lui dove la sua foto viene abbinata a una kefia palestinese in testa. Un clima rovente e scientificamente descritto dal film assemblando immagini da telegiornale e ricostruzioni cinematografiche. Mischiando documentario, film poliziesco e suspense da thriller, molto ben fatta è la ricostruzione psicologica dell’assassino Yigal Amir e del processo dove i giudici hanno interrogato vari testimoni, fra cui i capi della polizia.

Tanti sono i misteri e le perplessità su quel tragico sabato sera di 21 anni fa. Che tipo era questo assassino? Come ha fatto a entrare in quella folla e a superare i controlli? Poteva la polizia fermarlo o impedire l’accaduto? Interrogativi lancinanti su cui ruota il film. Amir viene interpretato da un bravissimo Yogev Yefet che si vede mentre dopo la preghiera prepara la sua pistola caricandola. Parla poco, ma è tagliente, freddo e sornione molto convinto del suo folle gesto. “Dovevo farlo per il bene di Israele” risponde durante l’interrogatorio dopo l’arresto. Molto incisivi i dialoghi e le ricostruzione degli interrogatori giudiziari e gli interpreti di giudici, sono davvero molto credibili.

Molto amara questa parte dove emerge che le forze dell’ordine, secondo il film, non hanno fatto abbastanza, lasciando passare indisturbato o quasi Amir per compiere il suo intento. Molto pungente la descrizione dei gruppi estremisti e religiosi già vista in Kadosh e qui “ammorbidita” ma nemmeno più di tanto. Il laico Gitai descrive quanto alcuni rabbini molto radicali arrivarono a maledire Rabin, a dire che su di lui si sarebbe scagliata una tremenda punizione “Il Din Rodef” per aver venduto il Paese agli arabi. E così anche è estremamente polemica anche la scena dove gruppi di ultra ortodossi si scontrano con l’esercito mentre stanno per stabilirsi in un insediamento vicino a un villaggio arabo. Tensione, suspense, qualche eccesso nei toni e un film che dopo il Festival di Venezia era sparito dalla circolazione. Una pellicola forte e sicuramente non per tutti, piena di lampi di lucidità ma complessa e graffiante specialmente in un periodo tormentato per Israele e per il mondo come quello che stiamo vivendo dove diverse volte la discussione e il confronto, tanto amati da Gitai vengono fraintesi, ignorati o incompresi.