di Paolo Castellano
Recentemente un articolo del Jerusalem Post ha analizzato i danni che i cyber-terroristi stanno arrecando alle democrazie e in particolare al sistema di sicurezza di Israele. Quello che ci chiediamo è se Israele stia vincendo oppure no la cyber-guerra portata avanti da organizzazioni terroristiche come il sedicente Stato Islamico.
Gli Stati Uniti per esempio stanno certamente aggiornando le proprie capacità informatiche per respingere e neutralizzare coloro che rappresentano un serio pericolo per la collettività. Il 26 aprile, il New York Times ha riferito che il dipartimento americano per la cyber security stia organizzando un’offensiva contro l’ISIS per interrompere la diffusione dei suoi messaggi di propaganda e di reclutamento di terroristi (fornirebbe ai candidati istruzioni on-line su come diventare dei combattenti). Gli Stati Uniti hanno inoltre infiltrato alcuni loro agenti all’interno della macchina organizzativa digitale dell’ISIS con lo scopo di individuare i reclutatori e contrastarli efficacemente.
Come gli Stati Uniti anche Israele ha rilevanti armi informatiche da utilizzare in questa guerra. Il Jerusalem Post nel giugno del 2015 intervistando Pinchas Barel Buchris, membro dell’IDF a capo dell’unità 8200, ha svelato che lo stato israeliano ha la capacità di hackerare i razzi altamente tecnologici degli Hezbollah impedendone il lancio.
Le abilità degli informatici israeliani potrebbero evitare una dispendiosa corsa agli armamenti. Il 31 marzo l’istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale ha diffuso un rapporto di 81 pagine riguardo le linee guida che la politica israeliana dovrebbe considerare riguardo alla propria sicurezza informatica.
Per quanto concerne le offensive informatiche, il documento raccomanda un approccio su più fronti: integrare i cyber-attacchi con le forze armate convenzionali, interrompere il sistema di comunicazione del nemico utilizzando i proxy del settore privato (come fanno i nemici di Israele) e sferrare attacchi contenuti e mirati allo cyberspace nemico come messaggio deterrente.
Due settimane fa, un articolo di Yaakov Lappin ha riferito che l’unità dell’IDF per la sicurezza delle tecnologie dell’informazione ha svolto per la prima volta un’esercitazione di guerra cybernetica. La prova, basata sull’esperienza maturata finora, ha inscenato un attacco informatico ai sistemi dell’IDF.
Ma con tutte queste innovazioni offensive e difensive, Israele ha recentemente ammesso di non aver saputo respingere un certo numero di hacker che hanno colpito con successo i sistemi informatici più sensibili del Paese.
Nel mese di gennaio, la rivista Intercept ha rivelato che tra il 2008 e il 2012, i servizi segreti americani e britannici hanno hackerato i droni israeliani e gli aerei caccia F-16 con lo scopo di monitorare le loro attività nell’ambito di un programma chiamato “Anarchist”. Lo scopo era quello di raccogliere delle informazioni sulle operazioni militari a Gaza, monitorare possibili attacchi di Israele contro l’Iran e sfruttare la tecnologia dei droni israeliani esportati a livello globale.
Tra il 2011 e il 2014, l’abilissimo hacker palestinese Maagad Ben Juwad Oydeh era riuscito a violare più volte i droni dell’esercito israeliano che volavano su Gaza. Questo gli consentì di impossessarsi delle immagini video che i veicoli stavano riprendendo. Lo scorso 23 marzo l’informatico è stato incriminato per reati di cyber hacking presso il tribunale di Beersheva.
Insomma, Israele dopo aver subito queste offensive, sia da parte dei nemici che da parte degli alleati, sta organizzando un efficace apparato di sicurezza per mettersi al riparo da possibili attacchi informatici. Nonostante gli attuali sforzi la via sembra essere ancora lunga e piena di difficoltà come nel resto delle democrazie del mondo.