di Viviana Kasam
Nel processo di apertura diplomatica tra Israele e i Paesi del Golfo, l’Arabia Saudita è il convitato di pietra. Non ha rapporti diplomatici con Israele, non ha sottoscritto il Patto di Abramo, ma secondo gli osservatori politici, senza l’assenso della monarchia di Riyad il processo di pace non avrebbe potuto decollare. Si sa che esiste una collaborazione scientifica, tecnologica, e probabilmente anche militare non dichiarata tra Israele e l’Arabia Saudita. Che recentemente per recarsi in Bahrein l’aereo del primo ministro Naftali Bennett ha avuto il permesso di sorvolare il territorio saudita.
È di questi giorni la notizia (apparsa su Haaretz il 16 marzo) che il controverso ma lungimirante MBS, il principe ereditario che è a tutti gli effetti il monarca assoluto del Paese, ha dichiarato Israele non un “nemico” ma un “potenziale alleato”. La crisi ucraina, sommata al progressivo ritiro dell’America dallo scacchiere internazionale, potrebbero, secondo il quotidiano di Tel Aviv, rafforzare la necessità di forti alleanze locali e portare a una formalizzazione ufficiale di un processo di disgelo già in atto fra Israele e l’Arabia Saudita.
Se ancora non ci sono voli tra Tel Aviv e Riyad o Jeddah, e i cittadini israeliani possono ottenere il visto per l’Arabia Saudita solo grazie a una concessione ad personam del Consolato, per gli ebrei che hanno passaporti europei non ci sono problemi a visitare il Paese con un visto turistico.
Io stessa, grazie al mio passaporto italiano, l’ho ottenuto rapidamente attraverso l’agenzia di viaggi. Nel formulario, non è richiesto di indicare la religione, né di avere un passaporto senza visti di ingresso in Israele. E nonostante il mio cognome sui documenti sia Goren, un nome inequivocabilmente israeliano, non ho avuta nessuna reazione negativa negli aeroporti, negli alberghi, e ovunque abbia consegnato il mio documento d’identità.
Ero da parecchio tempo curiosa di andare a vedere con i miei occhi il cambiamento epocale che sta avvenendo nel Paese, e che mi era stato descritto da un amico scienziato che insegna nella avveniristica università Kaust sul mar Rosso -un istituto di Scienza e Tecnologia inaugurato nel 2010 per volontà del re Abdullah, progettato da un team americano, Hok Architecture, e finanziato dall’Aramco – un paradosso che proprio alla compagnia nazionale di idrocarburi sia stato chiesto di sviluppare le energie alternative e liberare l’Arabia dalla dipendenza dal petrolio. Il Kaust, che ha un endowment di 20 miliardi di dollari, pari a quello delle tre maggiori università americane, ha vinto nel 2010 il premio di Top Green Project al mondo, ha un alto numero di studentesse e di professoresse -che non hanno costrizioni di abbigliamento, guidano e si mescolano agli uomini in tutte le attività, ed è dotato delle apparecchiature più all’avanguardia per la ricerca scientifica.
Non lontano da Jeddah, sempre sulle sponde del Mar Rosso, sta sorgendo NEOM, la città del futuro. Un’area di 26.500 Km quadrati che si estende per 460 km sulla costa, dove avranno sede imprese tecnologiche, hub di incubatrici, centri turistici, un progetto all’avanguardia che è stato denominato Vision 2030. Ci lavorano i più qualificati esperti da tutto il mondo, e farà invidia a Singapore per l’arditezza architettonica e il livello di digitalizzazione e infrastrutture.
La peculiarità dell’Arabia Saudita è che non c’è quasi nessuna testimonianza a colmare il divario tra passato remotissimo e futuro.
Gli ultimi duemila anni, tra cui un lungo periodo di dominazione ottomana e poi di protettorato inglese, hanno lasciato ben pochi segni tangibili, a parte la bellissima vecchia città di Jeddah, ora patrimonio dell’Unesco, con le sue imposte e i suoi balconi a mashrabiyya -le tipiche griglie di legno dell’architettura islamica-, qualche stazione ferroviaria distrutta dai raid di Lawrence d’Arabia- e una mezza dozzina di forti e villaggi in mattoni di fango, recentemente restaurati, che ricordano lo Yemen a il Mali.
Il resto è deserto, meraviglioso, oasi, canyon mozzafiato, rocce antropomorfiche. Ci sono sei siti Unesco e dieci sono candidati a diventarlo.
Il principale è AlUla, che si sta proponendo come meta turistica internazionale e si sta attrezzando con alberghi di gran lusso (l’Arabia non vuole turismo low cost, uno degli alberghi lo sta progettando Jean Nouvel, ispirandosi alle tende beduine) e ogni sorta di offerta: dai cavalli alle mongolfiere, dai cammelli alle mountain bike, dagli elicotteri alle zip lines per i più coraggiosi.
Il comprensorio di AlUla, costituito da diverse località , tra cui Madain Salih, Dadan e Lihyan, è detta la “piccola Petra” per le meravigliose tombe perfettamente preservate, costruite dai nabatei lungo la via dell’incenso. Secondo una tradizione locale, corroborata da alcuni studiosi, qui si sarebbero accampati gli ebrei dopo la traversata del Mar Rosso, che avrebbe avuto luogo a Nueba e non a Sud del Sinai. Come spiega un video di Ryan Mauro su You tube, i locali chiamano una montagna di questa zona Jebel Moussa, il monte di Mosé, e sarebbero identificabili l’oasi dei 12 pozzi, la roccia da cui il Profeta fece scaturire l’acqua con la verga, la piattaforma del vitello d’oro e le colonne delle dodici tribù- tutti luoghi citati nell’esodo. C’è un pozzo chiamato il pozzo di Jethro vicino a Madian, dove Mosé avrebbe conosciuto la sua futura sposa e un monte con la cima bruciata che alcuni vorrebbero identificare con il Sinai, dove, secondo la tradiizone, l’Elohim si presentò sotto forma di fuoco.
Ovviamente a corroborare questa tesi mancano le prove scientifiche, ma sulle rocce circostanti AlUla ci sono migliaia di iscrizioni e incisioni, per la maggior parte ancora non decifrate, alcune con caratteri proto-ebraici e aramaici. 200.000 anni di storia testimoniata da tombe misteriose sulla cima delle colline, scene di caccia, effigi di animali selvaggi e domestici, dai leoni ai dromedari, dagli struzzi agli asini e alle capre, di personaggi umani, di vasi, e soprattutto chilometri di scritte lungo le gole e le pendici delle montagne. La chiamano la Biblioteca all’aperto, una affascinante testimonianza del nostro passato remoto, che, secondo gli archeologi, una volta decifrate le scritture, riserverà parecchie sorprese sia per quello che riguarda le origini della nostra cultura, sia per la storia biblica.
A contrasto di questi antichissimi reperti, una sala concerti che più avveniristica non si potrebbe. È il Maraya, che considero l’edificio più bello che io abbia mai visto, un cubo completamente ricoperto di specchi, 9.740 mq per la precisione, opera di due gruppi italiani: gli architetti di Giò Forma e i project manager di Black Engineering. Una illusione ottica alta 26 metri, che cambia continuamente riflettendo le rocce, le nuvole, i tramonti, i cammelli, una scatola magica dotata di acustica eccezionale, di un ristorante Michelin e di una galleria d’arte che ospita la collezione della mecenate saudita Basma Al Sulaiman, ben nota del mondo dell’arte contemporanea a sette stelle. Si tratta in gran parte di opere di donne, bellissime e poetiche, e donne sono la maggior parte delle guide che ci portano a visitare i monumenti e la maggior parte delle artiste esposte sia alla Biennale di Riyad che alla Biennale Desert X, ispirata a quella della Coachella Valley in California, che ospita opere d’arte site-specific nel deserto circostante. Sì, perché l’Arabia Saudita, oltre a dotarsi di infrastrutture modernissime, tra cui una rete di strade a sei corsie che attraversa il Paese e aeroporti previsti per il traffico internazionale, sta puntando molto sulla cultura, come peraltro tutti i Paesi del Golfo.
Il Paese delle contraddizioni
La cifra dell’Arabia Saudita, sono proprio le contraddizioni. Non solo tra il passato remoto e il futuro avveniristico. Il giovane principe ereditario, che governa a tutti gli effetti come un monarca assoluto (l’Arabia è uno dei pochi Paesi al mondo senza nemmeno una parvenza di Parlamento), da un lato vuole modernizzare il Paese a passo di corsa, dall’altro tiene in vita un sistema ferocemente tribale. Ha concesso la patente alle donne e tolto l’obbligo del velo che copre interamente il viso, ha abolito la polizia religiosa, aperto cinema, sdoganato la musica, che ora si ascolta ovunque, per strada e nei taxi, nei ristoranti e nei nuovi teatri, ha arrestato e tenuto in ostaggio per mesi, nella prigione dorata del lussuoso hotel Ritz Carlton, un elevato numero di principi e oligarchi accusati di corruzione, sostituendoli con una classe dirigente giovane e dinamica. Però tiene in vita la legge della sharia, che prevede la condanna a morte dopo un processo senza garanzie per l’imputato, per crimini che vanno dal furto, all’omosessualità, alle proteste politiche.
Un sistema giuridico simile all’Inquisizione, che proprio in questo periodo, secondo una denuncia di Amnesty, ha decretato l’esecuzione, in un sol giorno, di ben 81 persone. D’altronde, l’Arabia Saudita è il Paese della Mecca e di Medina, i due luoghi più sacri dell’Islam, e deve fare i conti con il potente clero wahabita che non vuole mettere a repentaglio la leadership religiosa del mondo arabo, già contestata, ai tempi della rivoluzione iraniana, da un gruppo di fanatici che occuparono la Mecca e cercarono di prendere il potere in nome di un fanatismo intransigente, portando di conseguenza il Paese a una svolta religiosa regressiva e chiudendolo di fatto ai contatti con il mondo occidentale.
Il fascino dell’Arabia Saudita è proprio questa contraddizione tra un passato possente e un futuro avveniristico, tra un regime dispotico che però garantisce a tutti i cittadini un grande benessere economico e una apertura verso le donne che contraddice tutti i nostri luoghi comuni e pregiudizi, una voglia di eccellenza e di cultura che si scontra con la tradizione beduina tenacemente radicata nel Paese. E, a differenza dei circostanti Emirati, è un Paese che ancora esprime, nel bene e nel male, la propria cultura e non è, almeno per ora, deturpato dal turismo.