di Anna Lesnevskaya
I 500 anni del Ghetto di Venezia: 1516-2016 – 2 puntata
Mezzo secolo fa si contavano 5.000 anime ebraiche,
oggi ne sono rimaste poco più di 500. Come far
rivivere quel rigoglioso passato? Facendo del Ghetto
un luogo d’incontro ideale per tutti gli ebrei del mondo. Con una Comunità liquida, vivace, aperta. E con un progetto per attrarre nuovi residenti stanziali
Uno shabbat nella Scuola Levantina. Una cinquantina di persone, tra uomini, donne e bambini. I piccoli, vestiti di tutto punto, aspettano di festeggiare il compleanno di un loro compagno. Al termine della funzione ci spostiamo per il kiddush nel Centro comunitario del Ghetto Vecchio, dove le tavole sono imbandite con prelibatezze. L’atmosfera è raccolta e intima. Dopo il pranzo, un gruppo si raccoglie intorno al Rabbino capo Shalom Bahbout che tiene l’abituale lezione sulla parashah della settimana. Mi fermo a parlare con Aldo Izzo, uno dei membri più anziani della Comunità ebraica di Venezia, che si prende cura dell’antico cimitero ebraico del Lido. «Qual è il futuro di questa Comunità?», gli chiedo. «I giovani se ne vanno e il vetro di Murano ormai si fa in Cina», risponde con pessimismo tipicamente veneziano.
«Siamo oggi a 500 membri, a 500 anni dall’istituzione del Ghetto di Venezia», dice scherzando Shaul Bassi, professore di Letteratura inglese a Ca’ Foscari. In realtà, la cifra ufficiale fornita dalla Comunità ebraica di Venezia è ancora più esigua: 450 ebrei veneziani. Veneziani, poi, per modo di dire, visto che circa 200 di essi vivono in terra ferma, principalmente a Mestre, come una buona parte della popolazione della città che a Venezia ormai viene solo a lavorare. Mentre nel Ghetto adesso abitano solo due famiglie ebree. E pensare che a ridosso del 1630, prima che la Serenissima fosse colpita da un’epidemia di peste, tra lo spazio ridotto delle calli del Ghetto Vecchio e il Campo del Ghetto Nuovo fioriva una comunità di 5 mila anime! Prestatori di denaro della “nazione tedesca” coi loro banchi di pegno, ricchi mercanti levantini e ponentini, medici leggendari e rabbini illustri, come Leone da Modena e Simone Luzzatto.
Ora il Ghetto fa parte delle attrazioni turistiche di Venezia e non è immune dall’inesorabile processo di museificazione. «Spesso le persone che vengono qui – spiega Shaul Bassi – si fanno delle domande e si danno delle risposte sbagliate. Pensano magari che si tratta di un ghetto della Seconda Guerra mondiale, oppure vengono attratti dall’aspetto folkloristico dei Chabad-Lubavitch». Infatti, il Campo del Ghetto Nuovo è dominato dal monumento alle vittime dell’Olocausto di Arbit Blatas e dai chassidim che in realtà sono sbarcati a Venezia negli anni Ottanta. Ma la ricca storia del quartiere traspare ancora, pur in una maniera meno vistosa. Le cinque finestre sulle facciate della piazza segnalano la presenza delle antiche sinagoghe, tanto nascoste all’esterno, quanto sontuose e imponenti all’interno, mentre i pozzi portano ancora lo stemma della famiglia Da Brolo, i proprietari veneziani dell’area del Ghetto Nuovo, all’epoca della sua istituzione, come spiega Donatella Calabi nel suo volume Venezia e il Ghetto. Cinquecento anni del “recinto degli ebrei” (Bollati Boringhieri, 2016).
Se nel Museo Ebraico con la sua fornitissima libreria “Alef” e nelle sinagoghe arriva un flusso di 100 mila turisti all’anno è soprattutto per merito della Comunità che, seppur piccola, è molto attiva e ha saputo negli anni darsi un’organizzazione funzionante. Si è dotata di un Ufficio informazioni che in realtà dà indicazioni su tutta Venezia, di una residenza kasher e ora anche di un ristorante. L’israeliana Anat, che abita nel Ghetto da otto anni insieme al marito Elie, responsabile della sicurezza della Comunità, ha visto una crescita progressiva di interesse verso il quartiere in questi ultimi anni. Lei stessa fa spola tra l’ufficio informazioni e l’albergo “Giardino dei melograni”. «Qua siamo in pochi e facciamo tutto, non manca mai il lavoro», racconta. Vivere Venezia e quotidianamente il Ghetto, crescere qua i figli è bellissimo, ammette. «Nel pomeriggio ci si ritrova tutti nel campo che è favoloso. I bambini possono uscire, giocare con gli amici».
L’albergo kasher “Giardino dei melograni”, situato all’interno dell’edificio della Casa Israelitica di riposo, è stato creato dalla comunità nel 2011 non solo per finanziarsi, ma anche per dare uno sbocco lavorativo ai propri giovani. Giordana, 31 anni, è cresciuta nella comunità veneziana, ha frequentato l’asilo e la scuola ebraica nel Ghetto, ha fatto qui il suo Bat Mitzvah. Dopo aver conseguito una laurea in Scienze internazionali diplomatiche a Bologna, è stata felicissima di poter tornare a Venezia, dove le avevano proposto di lavorare nella Residenza kasher. «Ho un legame profondo con la comunità e lavorare qui per me è bellissimo. Sono nell’albergo da quando è stato fondato, l’ho visto crescere, abbiamo fatto diversi lavori nelle camere, le abbiamo decorate ispirandoci al tema dei fiori e delle piante della Torà», racconta. Oltre ad offrire la colazione Kasher Chalav Israel, l’hotel è dotato di un ascensore sabbatico automatico e del timer nelle camere per l’accensione della luce.
Chi non sognerebbe di sposarsi o fare il Bar Mitzvah nelle splendenti sinagoghe del Ghetto veneziano? Infatti, come dice Anat, vengono qui da tutto il mondo per celebrare le occasioni speciali. Dall’estate scorsa, l’offerta turistica del quartiere è stata ampliata grazie al ristorante kasher “Ghimel Garden”, gestito dallo chef veneziano Bruno Santi con una socia della Comunità. «Per me, che non sono ebreo, è stata una sfida, ho dovuto studiare tantissimo», racconta Santi, affiancato in cucina da un mashgiah. Cosa offre lo chef al pubblico variopinto del Ghetto di Cannaregio? «Per gli stranieri cuciniamo i piatti veneziani tipici, come i bigoli in salsa o le sarde in saor, – spiega. – Agli israeliani piace molto la pizza fatta in casa. Mentre gli italiani vogliono mangiare i piatti tipici della cucina israeliana, e quindi facciamo, i falafel, l’hummus, le insalate…».
Un museo, una location speciale per le feste, un posto dove mangiare kasher, tutto qui? Shaul Bassi è convinto che non sia abbastanza: lui immagina un Ghetto vivo, sogna di far rinascere l’esperienza cosmopolita del quartiere ebraico del Seicento e riattualizzarla oggi. In parte lo sta già facendo attraverso l’organizzazione Beit Venezia, con risultati che fanno ben sperare. «Il cuore delle attività di Beit Venezia è permettere a più persone possibili di vivere a Venezia per periodi più lunghi della normale esperienza turistica», spiega. Si tratta soprattutto di artisti invitati a creare nel Ghetto, nutrendosi dell’incredibile energia di secoli di storia e vita che questo luogo sprigiona. E’ il caso di otto artisti-pittori di varia provenienza che hanno vissuto per tre settimane a Venezia a contatto con la Comunità, realizzando delle illustrazioni ispirate all’Haggadah veneziana del 1609. Quello che ha immaginato Shaul Bassi, insomma, è un vero e proprio centro internazionale di studi ebraici con una comunità liquida, fatta di un nucleo di ebrei veneziani e di ospiti ebrei e no, da tutte le parti del mondo.
«Importare residenti a Venezia è abitualmente difficile, pressoché impossibile – sspiega il fondatore di Beit Venezia, che coordina anche il progetto della prima pièce de Il Mercante di Venezia di William Shakespeare messa in scena proprio qui nel Ghetto. – Per questo credo molto in forme di residenza alternativa. Nella Comunità costruita in questo modo non c’è una netta separazione tra veneziani e turisti. La dicotomia veneziani/turisti così com’è non funziona. Porta qualche beneficio economico, ma in un certo senso diventa un veleno, perché rende tutto turistico. Noi invece vogliamo che ci si arricchisca a vicenda, che si crei l’arte, che il Ghetto diventi un luogo ideale di incontro tra ebrei di tutto il mondo». La ricorrenza dei 500 anni del Ghetto di Venezia non è quindi il punto d’arrivo ma di partenza, ma un’occasione per ripensare il futuro del più famoso quartiere ebraico del mondo.