di Nathan Greppi
Viaggio nella Lettonia ebraica (prima parte): un reportage. «La famiglia di mia madre ha vissuto in Lettonia per innumerevoli generazioni, finché non decisero di fare l’aliyah per cercare in Israele quella libertà che nell’URSS veniva loro negata. Fu quando lo zio Boris Mirman venne interrogato dal KGB…». Un reportage che è anche memoria e rimpianto. Passeggiando per le strade di Riga, alla ricerca dei segni lasciati dalla presenza ebraica
Entrando nel museo e curiosando tra i vari pannelli, a un primo impatto è difficile credere che un tempo quella fosse la sede locale del KGB a Riga, oggi capitale della Lettonia e all’epoca parte dell’Unione Sovietica: qui veniva trascinato per essere interrogato chiunque fosse anche solo sospettato di coltivare idee ostili al regime comunista. Nella stanza dove venivano condotti gli interrogatori, i muri sporchi e diroccati sono stati conservati nel loro aspetto originale, quale testimonianza di quel periodo buio.
La signora Sofia Mirman conosce bene quella stanza: quando, negli anni ’70, fu una delle prime donne in Lettonia a laurearsi in psicologia, in un periodo in cui agli ebrei sovietici era precluso l’accesso a diverse professioni, portava al collo un ciondolo raffigurante i rotoli della Torah. Proprio per il suo desiderio di esibire con senso di sfida e fierezza la propria identità ebraica, venne interrogata dal KGB su cosa significassero per lei quei simboli religiosi, mentre anche i suoi compagni di corso all’università venivano spiati a sua insaputa.
Anche il suo primo marito, il mio prozio Boris Mirman, venne interrogato dal KGB per aver preso parte al samizdat; si trattava di un’attività, alla parteciparono diversi ebrei, in cui si realizzavano in carta-carbone delle copie clandestine di testi scritti da autori proibiti in Unione Sovietica, tra cui il superstite dei gulag Aleksandr Solženicyn, per poi diffonderli nei circoli dei dissidenti contro il regime. Negli anni ’70, Boris emigrò assieme ai figli e alla sua seconda moglie negli Stati Uniti, dove oggi il suo terzogenito, Eugene Mirman, è un comico e doppiatore di successo.
Ciò che mi ha spinto a compiere questo viaggio non è solo la curiosità per una storia poco conosciuta in Italia; la famiglia di mia madre ha vissuto in Lettonia per innumerevoli generazioni, finché non decisero di fare l’aliyah per cercare in Israele quella libertà che nell’URSS gli veniva negata. Questo viaggio con la mia famiglia mi ha dato l’opportunità di riscoprire le nostre radici e il nostro passato, e di poter finalmente toccare con mano una realtà che finora avevo potuto conoscere solo attraverso le storie che si raccontavano in famiglia e le vecchie fotografie in bianco e nero.
Contesto attuale
Più in generale, passeggiando per le strade di Riga, non mancano i segni lasciati dalla presenza ebraica: il Black Magic, uno dei locali più rinomati della città, deve la sua fama ad un liquore inventato da Abraham Kunce, farmacista ebreo vissuto nel ‘700. E su un muro, è possibile trovare una targa in lingua yiddish dedicata a Philippe Halsman, celebre fotografo ebreo americano nato proprio a Riga.
Purtroppo, anche la distruzione dei monumenti ebraici ha lasciato un segno, ferite aperte tra le rovine della Grande Sinagoga Corale bruciata dai nazisti: qui oggi sorge un monumento alla memoria. Feritoie di ricordi tra cui si infilano furtive le storie di un mondo fulgido, un’Atlantide ebraica sprofondata negli abissi della Storia: nel Cimitero Ebraico di Riga mi accorgo che diverse tombe sono state distrutte durante il periodo sovietico.
Camminando tra i vecchi palazzi in stile Art Nouveau, noto numerose bandiere ucraine sventolare accanto a quelle lettoni; assai forte è il clima di solidarietà con Kiev e di ostilità verso Mosca, da sempre ritenuta una minaccia per l’indipendenza delle repubbliche baltiche. Tale clima si registra anche nei dettagli: i gestori del Teatro Russo Mikhail Chechov di Riga hanno esposto un cartellone in cui si dichiarano solidali con l’Ucraina e invitano a non confondere la lingua e la minoranza russa in Lettonia con lo Stato russo, poiché “il nostro è un teatro russo, non un teatro della Russia”. A numerose strade intitolate ad autori russi come Pushkin e Turgenev sono stati cambiati i nomi, mentre c’è chi vorrebbe persino rimuovere la statua di una ballerina russa posta davanti all’Opera Nazionale Lettone, il principale teatro di Riga.
Il Museo della Shoah
Passando per il mercato centrale di Riga i contrasti esplodono; costruito prima dell’occupazione sovietica e utilizzato come hangar per i dirigibili tedeschi durante la Prima Guerra Mondiale, sui muri esterni conserva il suo originale aspetto grigio e austero, benché assai rinnovato e modernizzato all’interno. Mia madre Genya ricorda ancora di quando vi veniva con sua madre a fare la spesa, e adesso ci trascina tutti con veemenza all’interno, a caccvia degli adorati pe’lmeni con la panna (una specie di ravioli ripieni tipici dell’Europa orientale), un piatto che “quasi” tutta la famiglia apprezza. Superato il mercato, giungiamo presso il Museo del Ghetto di Riga e dell’Olocausto in Lettonia; ad appena un chilometro a est da qui, un tempo sorgeva il ghetto ebraico locale, dove tra l’agosto e il settembre 1941 furono internati durante l’occupazione nazista circa 30.000 ebrei ai quali in seguito si aggiunsero anche 25.000 internati ebrei provenienti dall’Europa centrale.
All’esterno, vi è un lungo muro dove sono riportati tutti i nomi accertati delle vittime lettoni della Shoah. Tuttavia, «a volte le informazioni sono inevitabilmente sbagliate o incomplete, e questo spinge i discendenti delle vittime a venire qui per fornire informazioni e testimonianze sempre più complete e aggiornate» ci spiega la direttrice esecutiva del museo Yuliya Tereshchenko.
Questo museo, racconta Tereshchenko, «è diverso da altri perché è frutto dell’iniziativa di una piccola ONG, l’Associazione Shamir. Siamo arrivati che il luogo era vuoto, con l’erba che cresceva sopra le rovine e pieno di spazzatura lasciata in giro; qui è stato creato il museo nel 2010 per volere del responsabile di Shamir, il rabbino Menachem Barkahan. La Shoah non è avvenuta solo nel ghetto a Riga; vi erano tre campi di concentramento e undici campi di lavoro, e il ghetto era il luogo in cui le persone vivevano prima di essere deportate o uccise sul posto. Mentre gli eventi più tragici sono avvenuti in diverse aree di Riga, abbiamo scelto di realizzare il museo nel centro della città, in modo da essere facilmente raggiungibile da chiunque sia interessato a visitarlo». Al termine del muro sono elencati i cognomi delle vittime: mia madre li scorre lentamente, e a tutti noi sale un groppo in gola nel momento in cui ritrova i nomi di molti dei nostri parenti.
A fianco del muro vi è anche un monumento a forma di albero per rendere omaggio ai Giusti tra le Nazioni lettoni; ogni foglia di metallo rappresenta un Giusto. Entrando in un edificio laterale, invece, ci si imbatte in una sala piena di modelli di varie sinagoghe presenti in Lettonia prima della guerra; ce n’erano circa 200 in tutto il paese, e quasi tutte sono andate distrutte. Tornando all’esterno, sull’altro lato del muro con i nomi vi sono altri pannelli, che raccontano la storia del Ghetto di Riga, rimasto in piedi dal 1941 al 1943; dopo la sua liquidazione, tutti gli ebrei ancora in grado di reggersi in piedi furono mandati nei campi di concentramento. Nelle vicinanze, in un vecchio vagone dell’epoca, si trovano diversi pannelli e fotografie che ritraggono gli ebrei che furono deportati. In un altro edificio, invece, è allestita una mostra di fotografie dei circa 3.000 ebrei austriaci e cecoslovacchi deportati dal campo di concentramento di Terezin al Ghetto di Riga.
La maggior parte degli ebrei che sfuggirono ai rastrellamenti nazisti furono i 16.000 evacuati nell’estate del 1941 e i 5.000 deportati in Siberia da Stalin, il quale intendeva cancellare una buona parte dell’alta borghesia ebraica, poche settimane prima dell’arrivo dei nazisti; mentre quasi tutti quelli rimasti a Riga quando venne occupata dai tedeschi morirono. In due sole ondate, facendo loro credere che intendevano trasferirli in un luogo meno affollato e più salubre, alla fine del 1941 i nazisti convinsero gli abitanti del ghetto ad incamminarsi verso la Foresta di Rumbula, dove in 25.000 vennero gettati nelle fosse comuni o uccisi con un colpo alla nuca.
Il Museo Ebraico
Entrando nella sede della Comunità Ebraica di Riga, che oggi comprende poco più di 4.000 membri – i quali per la maggior parte parlano il russo come prima lingua-, al piano terra troviamo una mostra che parla degli ebrei deportati dai nazisti e dai collaborazionisti lettoni, oltreché degli ebrei che hanno ricevuto medaglie e riconoscimenti onorifici dallo Stato lettone.
Salendo al piano superiore, troviamo un’altra mostra ricca di manufatti e fotografie d’epoca che raccontano i grandi cambiamenti che hanno attraversato la storia dell’ebraismo lettone: dalla rivoluzione in Lettonia del 1905 alla partecipazione degli ebrei lettoni alla Prima Guerra Mondiale, dall’avvento del movimento sionista a quello dei socialisti del Bund, mostrando le foto dei leader e degli attivisti delle rispettive correnti politiche. Numerose le foto e i ritratti di artisti, scrittori, pensatori e leader politici che hanno segnato la storia degli ebrei in Lettonia. Vi è altresì una mappa del paese dove vengono indicate le ubicazioni delle fosse comuni dove furono seppellite le vittime della Shoah.
La Sinagoga Peitav Shul
Entrando nella Sinagoga Peitav Shul, l’unica in tutta Riga a non essere stata bruciata dai nazisti (trovandosi in pieno centro e incastonata tra altri edifici, i nazisti temettero che un eventuale incendio si sarebbe propagato in modo incontrollato), si rimane stupiti nel vedere i colori variegati al suo interno; la prima impressione che si ha è di trovarsi, più che nell’Europa orientale, in una sinagoga del Medio Oriente o del Nordafrica.
Salendo nel matroneo al piano di sopra, si trova esposta una copia del trattato di Niddah del Talmud Babilonese risalente al 1865, sulla cui copertina si notano dei fori di proiettili e tracce di sangue, in quanto il suo proprietario la utilizzò invano nel tentativo di proteggersi dagli spari dei nazisti.
Poco oltre l’ingresso della sinagoga, si può vedere un piccolo pannello che ricorda le vittime del massacro del 7 ottobre in Israele, riportandone tutti i nomi in lettere minuscole. Mentre scendendo nel tempio al piano inferiore per le preghiere della Kabbalat Shabbat, non si può fare a meno di notare le poche persone presenti: principalmente maschi, sia giovani sia anziani, appena sufficienti per fare un minian.
Nel 1993, poco dopo la caduta dell’Unione Sovietica, Sofia Mirman decise di recarsi nella sinagoga, dove «era attiva un’associazione di carattere medico, l’Associazione Shamir. C’erano medici ebrei che offrivano servizi di consulenza medica per chi lo chiedeva, e io iniziai ad offrire servizi psicologici, soprattutto a giovani ragazze». Aggiunge che «la vita ebraica è cambiata rispetto a una volta. Oggi non è rimasto quasi nessuno degli ebrei originari di Riga; quelli che non sono morti durante la guerra, sono emigrati all’estero, specialmente in Israele o negli USA. Mentre quelli che vivono qui oggi, per la maggior parte vengono da fuori, soprattutto da paesi come l’Ucraina o la Bielorussia». L’attuale rabbino capo della Sinagoga Peitav Shul, Rav Eliyohu Krumer, era stato da adolescente un suo alunno, e prima di diventare rabbino aveva seguito le sue orme studiando psicologia.
Tutte le immagini: © Nathan Greppi per Mosaico