parahsat tzav

Parashat Tzav. Il significato del sacrificio

Uncategorized

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Questa Parashà continua a trattare le norme riguardanti i sacrifici di cui si era occupata la Parashà precedente. Specifica anche quali parti di un animale non possono essere mangiate, e sottolinea che nessun animale morto di morte naturale o sbranato può essere sacrificato o consumato; leggi queste che anche oggi hanno la loro pratica applicazione nelle regole alimentari della “casheruth”. Passa quindi a descrivere la cerimonia di consacrazione sacerdotale di Aronne e dei suoi figli, una cerimonia che dura sette giorni. Una particolare attenzione dedica ai paramenti sacri che Aronne e i figli devono indossare durante la loro unzione a sacerdoti.

Metteremo in rilievo, anche se ne abbiamo già parlato nella Parashà precedente, il profondo significato dell’“offerta”, del sacrificio, compiuta nei momenti di gioia, o di tristezza o per “espiare” un peccato.
Viene così ancora una volta sottolineato lo stretto legame fra quella che oggi definiremmo la “legge civile e penale” e quella “religiosa” che contempla fin nei minimi particolari il comportamento del popolo per renderlo “fedele a Dio”.
La Torà prevedeva che anche il comportamento dei figli d’Israele, per quanto votati ad essere un popolo consacrato, non sarebbe stato sempre totalmente ineccepibile, e che essi avrebbero potuto commettere trasgressioni più o meno gravi.
Molto differente da quello di oggi era invece il modo di punirle secondo la Torà.
Al “peccatore” si richiedeva un atto di pubblica ammenda dinanzi all’altare di Dio. Un atto che gli imponeva tutta una serie di riflessioni e di azioni, come abbiamo visto nella Parashà di Va-ikrà, che metteva il “penitente” di fronte a Dio e alla propria coscienza.
Non era cosa di poco conto presentarsi dinanzi all’altare ed era forte l’impatto emotivo procurato dall’offerta, che doveva essere accompagnata da un sincero pentimento se voleva essere gradita e accettata dal Signore.
Un atto, quello del “sacrificio di espiazione”, assai diverso dalla prigione, punizione inflitta presso tutte le nazioni.
Il chiudere un essere umano fra quattro mura per fargli espiare una colpa, come i fatti hanno sempre dimostrato, non è educativo, né induce al pentimento.
Dalla prigione il peccatore è quasi sempre uscito incattivito contro la società, più agguerrito e pronto a moltiplicare i propri crimini.

Ecco perché oggi nei paesi più civili si cerca, per lo meno nei casi di reati meno gravi e soprattutto se si tratta di criminali particolarmente giovani, di ovviare ai danni derivati dalla reclusione fra quattro mura, in un ambiente sia materialmente, sia moralmente malsano, sostituendola con la condanna ad una attività di utilità sociale.
Ma sono trascorsi ben 32 secoli dalla promulgazione della Torà! In collegamento con il culto sacrificale riteniamo opportuno soffermarci sia sulla “gestualità” ordinata in modo ben preciso ai Sacerdoti durante l’offerta dei sacrifici, sia sulla “gestualità” richiesta durante la loro unzione.
È necessario tener presente che nell’epoca in cui la Torà fu consegnata, l’idolatria era l’unica forma di culto conosciuta, e i sacrifici per essa previsti erano accompagnati dai simboli e dai simulacri della divinità adorata.
Era una logica conseguenza del fatto che sin dall’inizio della propria vita sulla terra l’uomo, disarmato dinanzi a forze tanto al di sopra della propria capacità di comprensione, ha guardato intorno a se stesso in una inconscia ricerca di Dio.
L’aver costruito idoli, sia pure di legno o di pietra, può essere considerato, in un certo senso, già segno di un’evoluzione, del progredire dell’intelligenza; se non a Dio, l’uomo era arrivato, anche se in modo imperfetto e molto materiale, alla concezione di “simbolo” di Dio.
La trasformazione del simbolo materiale in astrazione spirituale è stato, ed è, per l’uomo, un difficile passaggio. In effetti, come osserva giustamente l’Heschel, è solo la kavvanà, la concentrazione indispensabile in ogni atto cultuale, piuttosto che una superficiale comprensione del simbolo, ad evocare in noi la gioia finale al momento di compiere una “mitzwà”, un precetto.
D’altronde è una conseguenza dell’umana imperfezione che anche il più puro concetto del Dio unico e incorporeo abbia bisogno dei suoi simboli. Infatti, si chiede ancora l’Heschel, che cosa sono i “simboli”? E risponde: sono mezzi di comunicazione! Essi ci comunicano un messaggio a seconda del ruolo che attribuiamo loro; di conseguenza per apprezzare un “simbolo” dobbiamo conoscere che cosa esso rappresenta.
In questa ottica tutti gli oggetti, e tutte le azioni, divengono “simboli” o, forse, mezzi per rappresentare il simbolismo vivente dell’uomo.
Ecco perché soddisfare questa esigenza di “simboli” nell’ebraismo, il cui culto, come sappiamo, non era e non è accompagnato da nessun simbolo materiale così come vuole il rigido monoteismo ebraico, si concretizza attraverso una serie di atti, di gesti, che rappresentano il nostro desiderio di avvicinarci al massimo a Dio. Gesti compiuti con le nostre membra, coi movimenti del capo, delle mani, del corpo.
Questi simboli, in un certo senso astratti a somiglianza del Dio che gli ebrei pregano, sono l’unico modo concepibile per l’ebraismo di dimostrare l’obbedienza al volere divino.
Quindi nelle modalità ordinate per compiere i sacrifici grande rilievo viene dato alla condizione di santità di chi lo compie e di chi lo consuma, al luogo in cui esso deve essere compiuto, agli ingredienti che devono essere usati perché devono emanare “soave odore all’Eterno”, e alla gestualità che deve accompagnare il compimento del sacrificio.
Tanto più evidente il valore del “simbolo” della gestualità risulta appunto, nella nostra Parashà, dalla descrizione dell’investitura o iniziazione di Aronne e dei suoi figli.
“Prendi Aronne e i suoi figli con lui, i paramenti, l’olio dell’unzione, il bue per il sacrificio”, è scritto (Lev. 8,2).