Noi ebrei e il cibo. – Non tralasci completamente di mangiare carne e di bere vino, poiché ti basta ciò che la Torah ha proibito. Però, nel momento del pasto, quando ha ancora appetito, lasci del cibo in onore del Creatore di quanto gli fa gola e non mangi a volontà. Questo metodo lo tratterrà dal peccare e gli rammenterà lamore del Creatore più di un digiuno alla settimana, poiché questo avviene continuamente, ogni giorno, quando mangia e quando beve; lasci un po di quanto desidererebbe in onore di D. (R. Yonah da Gerona, La Base del Pentimento).
La normativa ebraica tradizionale dà ampio spazio allambito alimentare. La stessa bocca che serve per pregare e lodare la Divinità deve sottoporsi ad una disciplina. In che cosa consiste? In ogni stadio della Rivelazione luomo ha dovuto provare lobbedienza a Dio con laccettazione di regole alimentari. Lumanità primitiva era vegetariana: ad Adamo era stato consentito di mangiare dai frutti degli alberi dellEden. Solo con Noè troviamo il permesso esplicito di cibarsi della carne degli animali.
E uno sfogo, concesso allumanità dimostratasi incapace di evitare la violenza delluomo sulluomo. I Cabalisti descrivono la catena alimentare fra i vari regni della natura come un moto elevatorio, per cui lo stadio successivo santifica il precedente come segue: i vegetali si nutrono di minerali, gli animali si nutrono di vegetali e luomo, posto al vertice della gerarchia, si nutre a sua volta degli animali.
Ma a questo cè un limite fin da antico: il divieto di cibarsi di sangue e di membra tratte da animali vivi. Il sangue rappresenta lanima dellanimale, in un duplice senso. Da un lato, se ci è stato consentito di mangiare il corpo dellanimale, non tutto diviene per forza accessibile. Vi è la parte più sublime dellanimale, la sua anima, di cui non possiamo disporre. Nello stesso tempo, è opportuno che non ne disponiamo, perché altrimenti ne acquisiamo la bestialità. Nella Rivelazione successiva lintero rito della macellazione e della preparazione della carne per la cottura riflette questa visione.
Lebraismo non ama lascesi, cioè la rinuncia totale ai piaceri della vita, ma predilige la disciplina. La tradizione ebraica non vuole la repressione degli istinti, ma la loro sublimazione: in questo si distingue dal Cristianesimo, nel non postulare nelluomo unantitesi corpo/anima. Ma si distingue anche dalle filosofie orientali nel non postulare unantitesi sensi/razionalità: anzi, laccento viene proprio posto sul controllo dei sensi da parte della ragione.
Poi è stata elaborata una serie molto più complessa di leggi alimentari tese a regolare la vita del popolo di D. Alcuni le hanno interpretate come regole di igiene destinate ad assicurare la perpetuità fisica del popolo dIsraele (il divieto della carne di alcuni animali, come il maiale); altri vi hanno riconosciuto alcuni tabù legati alle abitudini dei popoli idolatrici che si volevano sradicare (il divieto di mescolare carne e latticini). Le regole alimentari sono un mezzo per mantenere la propria identità, ma sono soprattutto una disciplina per lacquisizione della santità: Tu sarai santo, perché Io, lEterno tuo Dio, sono Santo: unanima santa in un corpo santo. Vengono vissute come un decreto del Re: la Sua legge sui Suoi servi (Rashì a Gen. 26,5).
Dedico unultima riflessione al tema della pace nel mondo. Le religioni parlano di condivisione e fraternità come premesse necessarie ad affrontare il problema. Sono concetti alti, ma a mio dire non sufficienti. Per aiutare i meno fortunati nella tradizione ebraica è prescritta la tzedaqah, parola che non significa carità, bensì giustizia. Essa è per noi un obbligo, al punto che chi nega laiuto ai bisognosi commette furto. Ma ci sono molti modi per adempiere allobbligo della tzedaqah. Dare il cibo ai poveri è certamente uno di essi, ma non è la forma più alta. Essa consiste piuttosto nel dar loro i mezzi perché possano procurarsi il cibo da soli. Per questo, noi Ebrei non siamo contrari alle tecnologie alimentari, anche le più avanzate, se queste servono a sfamare il mondo, dove la natura non arriva da sola. E scritto infatti, nel racconto della creazione del primo Uomo: riempite la terra e assoggettatela (Gen. 1,28): lUomo ha il diritto di intervenire sul creato per piegarlo a proprio uso e consumo, purché il proposito sia costruttivo.
Rav Alberto Moshe Somekh
Questo intervento del rabbino capo di Torino, Rav Alberto Moshe Somekh è stato tenuto a Torino nel corso del convegno Cibo e religioni: rituale, norme, condivisione, solidarietà. Il convegno ha costituito un incontro interreligioso di servizio che ha la finalita di informare e illustrare quale sia il significato del cibo per ogni religine dagli aspetti rituali alla solidarieta’ alla condivisione spiegando con chiarrezza quali siano i principi religiosi in merito norme e tradizioni comportamento dei fedeli.
Hanno partecipato con un loro intervento anche Michele dell’Utri, assessore alle politiche giovanili relazioni e cooperazione internazionale della citta’ di Torino, don Livio Demariee, direttore dellUfficio comunicazione della diocesi di Torino, il pastore Giuseppe Platone della chiesa valdese di Torino, il padre Luciano Rosu della chiesa ortodossa romena, parrocchia di Torino, Abdelaziz Khounati, dellIstituto islamico moschea della pace di Torino, Elvio Arancio dellunione delle Comunità ed delle organizzazioni islamiche d’italia , il reverendo Massimo Daido Strumia, dellUnione buddista italiana, Svamini Hamsananda giri induismo, Sergio Griffa della chiesa dei Santi degli ultimi giorni, Roop lal Sandhu, delluniversita’ di Torino. Riiccardo Moro direttore della fondazione Giustizia e solidarieta’ di Roma, Iignazio Garau, direttore Associazione Citta’ del
bio. Ha moderato i lavori Giuseppe Valperga curatore di Ecumenica.